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Terrorismo, l’origine del Califfato è la Rivoluzione Islamica: i sunniti e bin Laden

La risposta sunnita all’esportazione della rivoluzione iraniana
La risposta dell’universo sunnita, all’esportazione della rivoluzione iraniana, non tardò a venire. Dopo secoli di quietismo e di pacifica convivenza, fra le due fedi religiose in contrasto (sciismo/sunnismo) in contrasto, ci fu l’evento scatenante del risveglio della contesa. Infatti, il 20 novembre 1979, durante il pellegrinaggio a La Mecca ci fu un attacco armato ad opera di dissidenti sauditi provenienti dal Najd (regione del centro dell’Arabia Saudita, la cui principale città è Riaḍ) nell’area della grande Moschea Al-Haram. Gli insorti dichiararono che il Mahdi era tornato nella persona di uno dei leader dei rivoltosi, invitando i pellegrini ad obbedire a quest’ultimo. Inoltre, la moschea fu assediata e centinaia di pellegrini vennero presi in ostaggio. L’assedio terminò dopo due settimane concludendosi con l’uccisione di quasi tutti gli ostaggi – unitamente a centinaia di rivoltosi e molti rappresentanti delle forze di sicurezza – nello scontro a fuoco che ne derivò per il controllo dell’area ove è ubicata la suddetta moschea. L’assedio disorientò la Casata saudita che percepì palesemente il pericolo della rivoluzione khomeinista, che aveva innescato la rivolta. Ma il casus belli fu determinato dall’invasione sovietica dell’Afghanistan (dicembre 1979). In tale nuovo scenario, l’esportazione della rivoluzione iraniana – già in fieri in Iraq con lo SCIRI – si accingeva ad interessare anche l’Afghanistan e il Pakistan, influenzando l’etnia hazara (afghana) di fede sciita. L’Arabia Saudita in tutta risposta avviò il finanziamento in petrodollari sia di movimenti islamici sunniti – che si opponevano all’Iran – sia di movimenti in Afghanistan che contrastavano l’atea Unione Sovietica. Ne derivò lo sviluppo di una rete di istituzioni per la formazione religiosa, moschee, università, ecc. che favorirono la diffusione – al di fuori dei propri confini – dell’Islam in chiave wahhabita. L’Afghanistan, governato allora dal Partito Democratico Popolare dell’Afghanistan (PDPA) di stampo marxista-leninista, era sostenuto dall’Unione Sovietica. Il PDPA aveva attuato un programma di modernizzazione di stampo social-comunista, al quale non era affatto favorevole il “clero islamico” in quanto le riforme imposte erano contrarie ai principi tradizionali e religiosi afghani. Pertanto i mullah afghani diedero vita – nelle zone montuose dell’Afghanistan – a vari raggruppamenti guerriglieri, collettivamente noti come mujaheddin, che avviarono iniziative di resistenza armata. Tali gruppi furono inizialmente supportati e finanziati da Pakistan ed Arabia Saudita, cui poi si aggiunsero Stati Uniti, Regno Unito e Cina all’atto dell’invasione sovietica.
Il sostegno del Pakistan alla guerriglia dei mujaheddin in breve trasforma l’Afghanistan in un “santuario” della guerriglia
Ma la guerriglia dei mujaheddin sunniti non trovò una dimensione unitaria, né una comune guida politica o militare. Dopo alcune iniziali indecisioni, il governo (militare) pakistano del generale Muhammad Zia ul-Haq decise di sostenere la guerriglia afghana, anche per timore di una minaccia sovietica ai confini del suo Paese: per la posizione geografica. In particolare, per la fragilità della lunga linea di confine terrestre (2670 Km.) che separa Afghanistan e Pakistan, nota come “Linea Durand”. Lo stesso Pakistan divenne rapidamente un “santuario” della guerriglia, un luogo dove radunare truppe e rifornimenti fuori dalla portata dei sovietici.
Nel 1981 nasce la Ettehad-i Islami Mujahidden-i Afghanistan, che dopo un anno si frantuma in due gruppi: fondamentalisti e moderati
Tuttavia, i vari gruppi di mujaheddin rimasero divisi per tutta la durata del conflitto. Ciò in funzione delle regioni di provenienza, dei clan di appartenenza e a causa delle varie ideologie politiche e religiose seguite. Nel 1981 il Pakistan tentò di dare vita ad una loro organizzazione unitaria, la Ettehad-i Islami Mujahidden-i Afghanistan (“Unità islamica dei Mujaheddin Afghani” o IUAM), che dopo circa un anno si frantumò in due gruppi principali – suddivisi in fazioni – catalogabili macroscopicamente in ragione delle idee: fondamentalisti e moderati. Tutti i citati gruppi erano indicati come “Peshawar 7” (Nota1), denominazione dell’area ove era collocata la loro direzione strategica. Gli sciiti hazara delle regioni centrali furono esclusi dal Peshawar 7, che raggruppava solo tutti i gruppi di matrice sunnita, per cui formarono due fazioni – proprie della loro etnia – poiché nell’area (Hazarajat- regione hazara) operavano due partiti sciiti separati:
- lo Shura-i Inqilabi (“Consiglio rivoluzionario”) che, guidato da Sayid Ahmed Beheshti, riuscì a imporre un governo-ombra sulla regione hazara;
- la sua opposizione rivoluzionaria la Sazmar-i Nasr (“Organizzazione per la vittoria”), entrambi finanziati dall’Iran, che raggiunsero un accordo per operare congiuntamente nel 1985.
Nel 1984 la guerriglia sunnita trova una direzione unitaria
La guerriglia sunnita trovò una direzione unitaria solo nella seconda metà del 1984, inizialmente con unità più organizzate – i cosiddetti “Reggimenti islamici”, costituiti dagli elementi più giovani e dotati di un peculiare addestramento militare fornito loro nei campi pakistani – e successivamente con:
- l’intervento di agenti CIA che si occuparono dell’addestramento dei loro omologhi pakistani dell’ISI, accrescendone le capacità di condurre operazioni segrete;
- il rifornimento di armi, equipaggiamenti militari nonché l’addestramento di afghani reclutati nei campi profughi pakistani;
- il finanziamento, soprattutto ad opera dell’Arabia Saudita, che fornì milioni di dollari per acquistare armi e rifornimenti. Il servizio segreto saudita fu inoltre coinvolto nell’addestramento e nell’invio in Afghanistan di combattenti volontari provenienti da tutto il mondo islamico;
- la gestione dell’ISI pakistano – con riferimento ad addestramento dei guerriglieri, rifornimenti di armi e distribuzione del denaro raccolto – che consentì loro di favorire nei rifornimenti quei gruppi di mujaheddin più graditi al governo pakistano, come l’HIH di Gulbuddin Hekmatyar;
- la fondazione, nel 1984, di “Maktab al-Khidamat al-Mujahidin al-Arab” [o semplicemente Maktab al-Khidamat (MAK), anche noto come “Bureau of Afghan Services” o anche “LA CASA”] ad opera di Abdullah Azzam, Wael Hamza Julaidan, Osama bin Laden e Ayman al-Zawahiri e massicciamente finanziato – da Pakistan, Arabia Saudita e Stati Uniti – nel periodo 1985-1989.
L’ideologo dell’organizzazione fu l’attivista palestinese Abd Allah al-Azzam ed il finanziatore il miliardario saudita Osama bin Laden. L’organizzazione istituì campi d’addestramento in territorio pakistano ed ebbe accesso ai fondi raccolti per la guerriglia tramite l’ISI pakistano. La struttura di base del MAK fu poi utilizzata da bin Laden per costituire la propria organizzazione di al-Qaeda.
Nel 1988 Osama bin Laden fonda al-Qaeda
Nel 1988, bin Laden lasciò il Maktab al-Khidamat – unitamente a molti dei suoi militanti – per sviluppare un ruolo più incisivo di carattere militare. Uno dei principali punti, che portano alla scissione e alla realizzazione di al-Qaeda, fu quello di costituire una formazione islamica organizzata con l’obiettivo di impiegare “la parola di Dio per rendere la sua religione vittoriosa” a livello globale. L’11 agosto 1988, in un incontro tra “comandanti” della Jihad Islamica Egiziana, Abd Allah al-Azzam e Bin Laden, si convenne di unificare i capitali di bin Laden con l’esperienza operativa della Jihad Islamica Egiziana per sostenere altrove la causa jihadista allorquando fossero stati cacciati i sovietici dall’Afghanistan. I requisiti per l’adesione ad al Qaeda prevedevano fra l’altro: capacità di ascolto, buone maniere, obbedienza e giuramento (in arabo bayat), in segno di sottomissione e riconoscimento dei propri superiori. Nasce così la la prima meteora terroristica avente come obiettivi: la liberazione dei paesi musulmani dall’occupazione degli USA e dei suoi alleati; una campagna rivoluzionaria contro i regimi laici e “sunniti infedeli” che governano il mondo islamico e un’azione di vigile controllo della crescente influenza della rivoluzione iraniana. Molte saranno le vittime sciite del terrorismo soprattutto in Iraq, prima con al Qaeda in Iraq (AQI) guidata da Zarqawi e poi con ISIS del califfato di al Baghdadi.
L’ideologo del gruppo terrorista è Abdallāh Azzam, che getta le fondamenta teologiche del jihadismo per la costituzione del califfato globale
Abdallāh Azzam, è stato il vero «pensatore» di al-Qaeda, colui che ha gettato le fondamenta teologiche del jihadismo per la costituzione del califfato globale. Secondo il suo pensiero i «miscredenti» – sia mussulmani sia non mussulmani – volenti o nolenti dovevano convertirsi spontaneamente, altrimenti sarebbe stato lecito ucciderli indipendentemente da qualsiasi vincolo morale e legale. Il terrorismo jihadista, quale “jihad globale” nasce quindi, come “creatura” dell’ideologo palestinese – per la realizzazione del califfato – e frutto della combinazione di intrighi geopolitici, petrodollari, Wahhabismo, Fratellanza Musulmana e modelli di sviluppo fallimentari. I combattenti stranieri affluiti a Peshawar per combattere contro i sovietici erano prevalentemente giovani contestatori dei rispettivi governi, contagiati dagli effetti della rivoluzione iraniana, di cui le rispettive Autorità ne favorirono l’esodo sia per mantenere lo status quo all’interno dei vari Paesi sia per contrastare contestualmente l’esportazione della rivoluzione iraniana.
L’indottrinamento e l’addestramento delle giovani leve di al-Qaeda
Tale scelta politica si rivelò però miope poiché le giovani leve – quasi tutte militarono nelle fila di Al Qaeda – furono collettivamente indottrinate, dal punto di vista religioso, tramite un miscuglio di principi intransigenti. Dettami del salafismo wahhabita (Nota 2) che imponeva dall’alto gli antichi precetti religiosi misti a credenze più tolleranti – queste ultime sostenute dai Fratelli Mussulmani – finalizzate ad una capillare penetrazione nel sociale per la realizzazione di uno Stato Islamico basato sulla Sharia. La Fratellanza Musulmana, quale organizzazione politica, ha sempre teso ad una “islamizzazione dal basso” attraverso l’educazione e la propaganda negli strati sociali. I fondamentalisti wahhabiti, invece, hanno sempre mirato ad una “islamizzazione dall’alto”, imposta anche con il jihad. I giovani, inoltre, furono addestrati in efficaci tecniche di guerriglia per contrastare l’esercito sovietico, rendendoli simili – con tale formazione – a unità di Forze Speciali.
La sconfitta dell’Unione Sovietica in Afghanistan porta il terrorismo “in casa” di molti Paesi. L’Iran reagisce alleandosi con Hassan al Turabi
Detta scarsa lungimiranza emerse evidente allorché furono cacciati i sovietici dall’Afghanistan ed i giovani combattenti tornati nei rispettivi Paesi – 1990/1991 – avviarono manifestazioni di protesta, fomentate anche dall’Iran, che sfociarono nella formazione di gruppi terroristici con attentati per la costituzione di repubbliche islamiche. L’Iran khomeinista non tardò ad inserirsi in questo nuovo contesto rivoluzionario e nella primavera del 1992 allacciò stretti rapporti con Hassan al Turabi, leader sudanese della Fratellanza Musulmana. Turabi aveva fondato nel 1991 la “Conferenza Popolare Araba e Islamica” con cadenza annuale nel corso della quale si incontravano molti gruppi rivoluzionari islamici provenienti da tutto il mondo, tra cui rappresentanti di: Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), Hamas, Jihad islamica egiziana, Jihad Islamica Algerina e Hezbollah.
Il Sudan diventa epicentro della rivoluzione islamica
In seno alla nominata Conferenza, Turabi sosteneva che i regimi fantocci – costituiti dagli USA e dai suoi alleati nell’area medio orientale – erano i veri nemici contro cui combattere il Jihad. Tali idee consentirono al leader sudanese di instaurare un’intesa con Khomeini per lo sviluppo di una rivoluzione islamica senza distinzione fra sciiti e sunniti. Khomeini offrì il suo aiuto per diffondere la rivoluzione islamica nell’area africana tramite il reclutamento, l’addestramento ed il coordinamento di nuove leve in favore delle varie organizzazioni dedite al jihad. Con la diffusione di tali teorie, il Sudan divenne l’area di raccolta e di addestramento del “Movimento Islamico Armato” (AIM), meglio noto come “Legione Internazionale dell’Islam”, struttura che ebbe basi in Sudan, Pakistan e Afghanistan, dove i nuovi adepti ricevevano – da esperti – addestramento per condurre operazioni sovversive e terroristiche.
Anche bin Laden arriva in Sudan
Sempre nel 1992 riparò in Sudan anche Osama bin Laden il quale – tornato in Arabia Saudita nel 1990 – era stato accolto come eroe del jihad per aver sconfitto con la sua “legione araba” la “superpotenza” dell’Unione Sovietica. Questo idillio però non tardò ad infrangersi sull’invasione irakena del Kuwait, (agosto 1990). La Coalizione – sostenuta dall’ONU per la liberazione del Kuwait dall’invasione irakena e guidata dagli USA – nel gennaio del 1991 fu ospitata dall’Arabia Saudita per condurre le operazioni militari contro gli iracheni. La presenza di militari stranieri – in particolare statunitensi sul suolo saudita – irritò bin Laden che denunciò pubblicamente la completa dipendenza militare del regno Saudita dagli Stati Uniti. Probabilmente il “guerrigliero saudita” non conosceva gli “arcana imperii” contenuti nel “Patto di Quincy” (nota 3). Al fine di ostacolare la suddetta presenza, bin Laden organizzò manifestazioni di protesta contro i reali sauditi, tanto da peggiorare le relazioni con gli stessi che lo privarono della cittadinanza. Nel 1992 bin Laden fu costretto a vivere in esilio in Sudan ove trasferì una nuova base operativa per la sua organizzazione Al Qaeda, anche per supportare tutte le attività sovversive e terroristiche di Turabi, fino al 1996.
Bin Laden dichiara guerra agli Stati Uniti: si interrompe il sodalizio con Turabi, Fratellanza Musulmana e Iran
In quell’anno l’ONU impose sanzioni al Sudan per l’ospitalità fornita al Movimento Islamico Armato e l’assistenza fornita al Jihad Islamico Egiziano nel tentativo di assassinare il presidente Hosni Mubarak nel 1995 ad Addis Abeba. Negli anni di permanenza in Sudan, l’organizzazione al Qaeda di bin Laden fornì assistenza finanziaria ai jihadisti e, talvolta, anche militare in Somalia, Algeria, Egitto e Afghanistan. Nel maggio 1996, a causa delle pressioni esercitate sul Sudan – da Arabia Saudita, Stati Uniti e ONU – bin Laden fu costretto a tornare a Jalalabad (Nord Est Afghanistan) ed il 23 agosto 1996, “dichiarò guerra” agli Stati Uniti. Si interruppe così il sodalizio fra Turabi, Fratellanza Musulmana, bin Laden ed Iran, costretto a ridimensionare ancora una volta le proprie velleità di esportare la rivoluzione khomeinista nell’area africana.
Il leader di al Qaeda si allea con i talebani del Mullah Omar e comincia una campagna di attentati, culminata con l’11 settembre 2001
Il ritorno di bin Laden in Afghanistan ed il suo stretto legame con il governo talebano del Mullah Omar divenne foriero di numerosi attentati contro gli Stati Uniti ad opera di al Qaeda: attentati culminati con quello alle Torri Gemelle (11 settembre 2001). Il catastrofico attentato condusse gli Stati Uniti a dichiarare guerra al terrorismo islamico, che non l’ha debellato ma anzi ne ha moltiplicato le metastasi prima in Iraq e poi altrove, dopo la sconfitta militare del califfato di Abu Bakr al-Baghdadi.
Le ambizioni iraniane di esportare la rivoluzione islamica finiscono nel 2003 quanto un attentato di AQI di Zarqawi a Najaf provoca la morte del fondatore dello SCIRI, l’ayatollah Muhammad Baqir al-Hakim
Le ambizioni iraniane di esportazione della rivoluzione islamica sono state definitivamente annientate nel 2003 quando il fondatore dello SCIRI iracheno, l’ayatollah Muhammad Baqir al-Hakim ed altri notabili sciiti furono uccisi a Najaf – mentre stavano lasciando la Moschea sciita dell’Imam Alì – da un attentato perpetrato con auto bomba dall’allora “al Qaeda in Iraq” (AQI), guidata dal sanguinario terrorista giordano Abu Musab al Zarqawi.
Gli Indomabili
Gli Autori
Luciano Piacentini – Brevettato incursore, è stato Comandante di Unità Incursori nel grado di Tenente e Capitano. Assegnato allo Stato Maggiore dell’Esercito, ha in seguito comandato il Nono Battaglione d’Assalto Paracadutisti “Col Moschin” e successivamente ricoperto l’incarico di Capo di Stato Maggiore della Brigata Paracadutisti “Folgore”. Ha prestato la sua opera negli Organismi di Informazione e Sicurezza con incarichi in diverse aree del continente asiatico. E’ laureato in Scienze Strategiche e Scienze Politiche.
Claudio Masci – Ufficiale dei Carabinieri proveniente dall’Accademia Militare di Modena, dopo aver assunto il comando di una compagnia territoriale impegnata prevalentemente nel contrasto al crimine organizzato, è transitato negli organismi di informazione e sicurezza nazionali. Laureato in scienze politiche. Tra i suoi contributi L’intelligence tra conflitti e mediazione, Caucci Editore, Bari 2010 e The future of intelligence, 15 aprile 20122, Longitude, rivista mensile del MAECI.
Pino Bianchi – Architetto, esperto in risk management, organizzazione, reingegnerizzazione dei processi e sistemi di gestione aziendali. Per oltre venti anni ha diretto attività di business, marketing, comunicazione e organizzazione in imprese multinazionali americane ed europee. Consulente di direzione in ICT, marketing, comunicazione, business planning e project financing.
ANTIOCO – Ha maturato varie esperienze lavorative in Italia e all’estero occupandosi di consulenza direzionale, sviluppo di mercati, cooperazione internazionale e gestione commerciale per rilevanti realtà industriali. Da sempre attento ai temi della security, ha ricoperto in realtà strategiche nazionali vari ruoli di responsabilità occupandosi di business continuity, security strategic planning, security communication, ricerca e analisi informativa e corporate intelligence.
Claudio Masci e Luciano Piacentini sono gli autori di: “The future of intelligence”, articolo del 15 aprile 2012, pubblicato su Longitude, rivista mensile del MAECI, nonché dei libri: “L’intelligence tra conflitti e mediazione”, Caucci Editore, Bari 2010 (esaurito) e di “Humint… questa sconosciuta (Funzione intelligence evergreen)”, acquistabile da Amazon.
Note
Nota 1: i componenti di Peshawar 7 erano:
- Hezb-i Islami Gulbuddin (“Partito islamico di Gulbuddin” o HIG o HIH): guidato da Gulbuddin Hekmatyar – che godeva di numerosi sostenitori, in maggioranza provenienti dalle aree pashtun e tagike – di idee decisamente fondamentaliste che aveva come scopo finale l’instaurazione di uno Stato islamico in Afghanistan e godeva di un solido appoggio da parte del Pakistan e del mondo arabo.
- Jamiat-i Islami (“Società islamica” o JIA): guidato da Burhanuddin Rabbani, era stato uno dei primi partiti islamici ad opporsi al governo comunista che, pur se minoritario tra l’etnia pashtun, raccoglieva però moltissimi seguaci tra tagiki, uzbeki e turkmeni, che annoverava tra le sue file il famoso comandante Aḥmad Shah Massud. Ideologicamente, il partito era orientato su posizioni fondamentaliste moderate.
- Hezb-i Islami Khalis (“Partito islamico di Khalis” o HIK): ala scissionista del HIH di Hekmatyar, guidato da un gruppo di mullah e “ulama” proiettato ad instaurare un regime teocratico nel paese.
- Ettehad-i Islami (“Unione islamica” o IUA): guidato da Abd al-Rasul Sayyaf, fondamentalista, che aveva rapporti con i gruppi wahhabiti.
- Jehb-i Nejad-i Melli Afghanistan (“Fronte di Liberazione Nazionale dell’Afghanistan” o ANLF): guidato da Sibghatullah Mojaddedi, un movimento di piccole dimensioni composto da intellettuali, uomini di Stato e Ufficiali del precedente regime, orientato su posizioni tradizionaliste, attivo soprattutto nelle zone di confine orientali a prevalenza pashtun.
- Mahaz-i Melli Islami (“Fronte Islamico Nazionale per l’Afghanistan” o NIFA): guidato dal leader religioso Ahmed Gailani, una specie di setta che annoverava molti sostenitori tra i pashtun della zona di Kandahar e delle aree di confine orientali. Contrario sia al comunismo che all’islamismo, era monarchico, nazionalista e filo-occidentale.
- Harakat-i Inqilab-i Islami (“Movimento Islamico Rivoluzionario” o IRMA): fondato da Mohammed Nabi Mohammedi, che contava tra le sue file molti mullah locali che garantivano così un largo seguito popolare, soprattutto nelle zone pashtun del sud, dell’est e tra gli uzbeki del nord.
Nota 2 Il Salafismo
La Salafiyya o salafismo è una corrente fondamentalista, sunnita – hanbalita, che intende “rifondare” l’islam opponendosi all’influsso di altre dottrine e a qualsiasi forma di occidentalizzazione. È così denominata dal termine arabo salaf al-ṣaliḥin (“i pii antenati”) che si identificano nelle prime tre generazioni di musulmani: i “Compagni” di Maometto, i “Seguaci” della generazione successiva e “Coloro che vengono dopo i seguaci”, cioè la terza generazione. Generazioni apprezzate – dai salafiti – quali modelli esemplari di virtù religiosa. Figure di riferimento della Salafia – tre studiosi del Corano e della Sunna – sono indicati col titolo onorifico di “Shaykh al-Islam”: Aḥmad ibn Ḥanbal (780-855), Ibn Taymiyya (1263–1328) e Muḥammad ibn Abdal-Wahhab (1703-1792) i quali predicavano l’applicazione della Sharia (Legge islamica).
A tali figure si ispirò l’”Iṣlaḥ” – ovvero il cosiddetto “Riformismo o modernismo islamico” – un movimento intellettuale e politico attivo tra l‘800 e il’900 nel mondo islamico con particolare riferimento all’area arabo-indiana. Islah, termine arabo che significa “riparazione”, è solitamente interpretato in ambito politico e religioso come “riforma”, da cui riformismo o modernismo islamico.
I primi dibattiti sul tema sono concordemente attribuiti alla spedizione napoleonica in Egitto nel 1798. All’epoca, la presenza militare europea che disponeva di avanzate tecnologie nonché la contestuale diffusione nell’area delle idee illuministe, unitamente a quelle della Rivoluzione Francese, suscitarono un tormentato confronto con l’immobilismo politico e culturale nel mondo arabo-islamico dall’Africa all’India. Al riguardo, la vasta area aveva già vissuto l’avvio dell’espansionismo coloniale europeo incentrato sia su lucrose rotte mercantili – che avevano sostituito quelle arabe – sia sullo sviluppo industriale. Se da un lato la nuova cultura suscitava ammirazione ed emulazione, dall’altra l’occupazione napoleonica fu interpretata come un’irresistibile ascesa del colonialismo e dell’imperialismo europeo che metteva in profonda crisi l’identità del mondo islamico. Dall’inevitabile confronto con la modernità europea nacque un movimento di “reviviscenza” eterogeneo, principalmente nell’area arabica ma con importanti ramificazioni anche in India.
Inizialmente il mondo islamico vagheggiò che il divario con l’Occidente dipendesse da una semplice inferiorità militare, peraltro senza mettere a fuoco che dietro quest’ultima si celava una cultura tecnologica ed un pensiero sempre più laicizzante, che auspicava una “libera Chiesa in un libero Stato”. Sentieri non facilmente imitabili, il cui percorso si prospettava di estrema difficoltà per il mondo islamico.
Tuttavia l’approccio all’Europa ebbe il merito di far conoscere alla “controparte” islamica le nuove realtà in fieri nel vecchio continente. Novità che esercitarono un certo “fascino” su un’esigua classe intellettuale non strettamente legata ai modelli esclusivamente religiosi dell’Islam. In questo contesto alcuni pensatori islamici si avvicinarono alla nuova cultura in espansione pensando di poter tradurre in realtà qualcuna delle tante promesse di libertà, uguaglianza e giustizia sociale, sbandierate dagli Europei. In particolare, i pensatori che si cimentarono in questa impresa furono: Jamal al-Din al-Afghani (1839-1897) iscritto alla massoneria, Muḥammad Abduh (1849-1905) anch’egli iscritto alla massoneria e Muḥammad Rashid Riḍa (1865-1935), tutti e tre operanti in Egitto.
Muhammad Abduh si convertì alla causa del rinnovamento dopo l’incontro con al-Afghani, indicato come padre del riformismo islamico, ed entrambi percepirono chiaramente l’incapacità degli Stati musulmani di difendere le rispettive popolazioni, le loro istituzioni politiche, il loro potere finanziario ed economico, a fronte dell’avanzante colonialismo europeo. I suddetti intellettuali invocarono una riforma ed una modernizzazione delle società islamiche in grado di liberarle dal dominio coloniale e ripristinare il proprio legittimo potere e prestigio.
Per il raggiungimento dello scopo era necessaria la creazione di uno “stato islamico” basato su una reinterpretazione dell’Islam – che ne eliminasse i retaggi «medievali» e le deviazioni avvenute nel tempo – con un ritorno ai principî del Corano dei “pii antenati” (salaf, da cui il nome di salafiyya). Al-Afghani e gli altri intellettuali affermavano che nel Corano si trovava la razionalità che era stata posta alla base sia della scienza sia della tecnologia moderna europea. C’erano anche i principî di lealtà, di patriottismo e di costituzionalismo, nonché orientamenti politici ed etici per la responsabilità morale e l’attivismo sociale, tutti fattori posti a fondamento del potere degli Stati moderni.
Ma il Corano, secondo i «riformisti», doveva essere interpretato nei suoi princìpi e orientamenti basilari e non pedissequamente applicato alla lettera nei suoi dettami specifici. Il fondamento della modernità musulmana risiedeva dunque nella chiave interpretativa del Corano e della Sunna trasferendone i concetti nella riforma degli Stati esistenti – frutto di un’imposizione coloniale, rafforzata dal potere dei “custodi militari” – in “stati islamici”. La riforma avrebbe risvegliato la popolazione islamica dal suo torpore e l’avrebbe affrancata dalla subordinazione al colonialismo europeo, restaurando il potere politico islamico e la vitalità culturale che aveva reso grande l’Islam nel passato.
Nei loro scritti difendevano la rinascita della cultura arabo-islamica, la lotta contro la dominazione straniera e i governi islamici secolarizzati, nonché attaccavano la corruzione e la divisione in seno alla comunità islamica. Affermavano, altresì, che le leggi dovevano essere adattate alla realtà moderna e che il regime parlamentare non era affatto incompatibile con l’Islam, come invece sostenevano i “dotti” musulmani conservatori.
La teorizzazione di questo stato, peraltro inesistente nel Corano e nella Sunna, venne fatta da Rashid Rida nel 1922, ispirandosi alle teorie di Abu Al-Hasan Al-Mawardi (972-1058). Mawardi, teorico del califfato, affermava che il califfo doveva:
- essere maschio, libero e sano di corpo e di mente;
- essere qurayshita, cioè appartenere alla tribù del Profeta Muhammad;
- essere dotto in scienze religiose, cioè essere un ulema, in grado di emettere pareri giuridici e religiosi;
- saper guidare gli eserciti in battaglia;
- essere eletto per libera scelta della comunità islamica (Ummah) tramite i suoi rappresentanti che erano gli stessi ulema.
Secondo Rida il mondo mussulmano non poteva fare a meno del califfato per assicurare l’unicità e la continuità della comunità dei credenti, ma tale Stato era postulato in assonanza ai criteri della modernità. In definitiva Rida auspicava che la Ummah, tramite un “congresso” avrebbe eletto i suoi rappresentanti i quali in una successiva “riunione” avrebbero a loro volta eletto il califfo fra i discendenti del profeta.
L’abolizione del califfato (3 marzo 1924 ad opera di Ataturk) e le ostilità degli ulema ortodossi e conservatori sancirono l’abbandono del disegno riformatore/modernista a favore di un panislamismo mirante a sviluppare reti di solidarietà fra mussulmani per una politica comune a sostegno dell’Islam, in funzione anti-occidentale e anti-socialista. In questo contesto, nel 1928 sorse l’Associazione dei Fratelli Mussulmani ad opera di Hassan al Banna, che si ispirò alle idee dei riformisti. Successivamente Said Qutb, appartenente anch’egli alla Fratellanza, riprese le idee di Rida propugnando di rifondare un califfato legittimo e forte come sede dell’unità islamica e della sua “legge”, garante della giustizia, dell’uguaglianza e basato sull’assistenza sociale ai più deboli, quale unica soluzione ai flagelli sociali che erano propri dei governi atei e materialisti.
Nota 3 Patto di Quincy
Il 15 febbraio 1945 – al rientro dalla Conferenza di Yalta – a bordo dell’incrociatore statunitense “USS Quincy (CA-71)” nei pressi del Canale di Suez, avvenne un incontro fra il Presidente statunitense Franklin Delano Roosevelt e il Re dell’Arabia Saudita Abd al-Aziz ibn Saud, (o semplicemente Ibn Saud).
Dopo una lunga discussione nel corso della quale il Presidente Roosevelt cercò di convincere Saud a sostenere l’immigrazione ebraica in Palestina, i due leader raggiunsero un accordo segreto – frutto di compromessi fra posizioni originariamente distanti – riguardante cinque temi:
- stabilità del Regno saudita – fornitore di petrolio per l’Occidente in guerra – al quale gli USA avrebbero prestato assistenza militare e formazione, costituendo una base militare a Dhahran. In cambio l’Arabia Saudita avrebbe garantito l’accesso sicuro alle forniture di petrolio;
- riconoscimento della stabilità dell’intera penisola arabica, rientrante come parte integrante nell’ambito degli “interessi vitali” degli Stati Uniti;
- introduzione fra i due Paesi di un partenariato economico, commerciale e finanziario quasi esclusivo (i proventi del petrolio saudita avrebbero finanziato le produzioni statunitensi, spesso a scapito delle concorrenti industrie europee e/o asiatiche);
- esclusione dell’ingerenza statunitense negli affari interni del Regno saudita: in particolare nessun codice di condotta o altra esigenza veniva espressa in materia di convergenze per la ricerca di una posizione comune;
- nessun accordo venne raggiunto in tema di diritti umani e sull’appoggio incondizionato, da parte statunitense, alla costituzione dello Stato di Israele.
La durata di questo accordo fu di 60 anni ed è stato rinnovato per un analogo periodo di tempo nel 2005 dal presidente George W. Bush, senza suscitare grande interesse mediatico.
L’intesa – approntata nella logica della Guerra Fredda – derivava dalle concezioni strategiche e geoeconomiche di alti funzionari statunitensi. Secondo questi ultimi, la strategia da adottare da parte degli USA – sul fronte meridionale dell’URSS – era incentrata su Turchia, Iran e Arabia Saudita, per sorvegliare gli stretti sul Mar Nero e le frontiere a Sud dell’Unione Sovietica, nonché garantire i rifornimenti petroliferi. L’accordo di Quincy, in sintesi, assicurava a Riad la protezione militare statunitense in cambio di costanti approvvigionamenti energetici sauditi.