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Terrorismo, Califfato vs. Rivoluzione Islamica: dalle origini a oggi

Califfato e Rivoluzione Islamica
Sulla base della cronologia storica è possibile affermare che il califfato jihadista tragga la sua origine come contrapposizione alla Rivoluzione Islamica Iraniana. La panoramica retrospettiva sottolinea che quest’ultima – avvenuta tra il 1978 ed il 1979 – trasformò la monarchia del Paese in una rigorosa repubblica islamica sciita, che ha turbato fino ad oggi l’area mediorientale. Questo studio, diviso in capitoli, ripercorre gli eventi – dalla rivoluzione khomeinista in Iran allo scontro tra Wahhabiti e Fratelli Musulmani – che hanno alimentato il jihadismo fino ai giorni nostri. Una repubblica islamica è una forma di governo in cui l’autorità religiosa detiene il potere politico dello Stato, nonché supervisiona e controlla gli organi amministrativi, fornendo le indicazioni relative alla giurisprudenza da seguire, fondate sul Corano e sulla Sunna. Questa forma di governo è presente in Iran, Pakistan e Mauritania: in Iran è a maggioranza di sciiti duodecimani, mentre nelle altre due repubbliche la maggioranza religiosa è sunnita. Era il 1975 quando lo Scià, incalzato dalle contestazioni, dichiarò fuorilegge tutti i partiti politici. Ma il drammatico aumento della disoccupazione e dell’inflazione scatenarono, nel maggio del 1977, le proteste di piazza. Prima scesero in piazza gli intellettuali, poi i religiosi seguiti dagli studenti, infine i movimenti politici nazionalisti e comunisti. Si sviluppò così una rivoluzione di massa, che minò le fondamenta del castello monarchico, costrinse alla fuga lo Scià e consentì il ritorno in patria del suo acerrimo oppositore, l’ayatollah Ruhollah Khomeini. All’inizio furono i Fedayn-e khalq – “volontari del popolo”, d’ispirazione marxista – a condurre la guerriglia i quali, in seguito, decisero di unirsi ai mujaheddin islamici per ampliare la lotta ed estendere la protesta. Alle forze di sinistra, l’applicazione della Sharia sembrava una ipotesi lontana da realizzare, ma il “clero sciita” consolidò il potere assunto dalla fazione integralista a scapito delle forze laiche, risvegliando i sentimenti patriottici e nazionalisti iraniani. Al ritorno Khomeini – rientrato in patria il 31 gennaio 1979 – monopolizzò la rivolta con i suoi seguaci, esautorando i gruppi di ispirazione politica laica che l’avevano iniziata.
L’Iran e Khomeini
Nel mese di febbraio l’ayatollah assunse il potere, mentre i tribunali rivoluzionari processavano e giustiziavano gli uomini del vecchio regime. Il 30 marzo 1979, con un referendum fu promulgata la Repubblica Islamica dell’Iran. Ma il vero incubatore della rivoluzione iraniana fu la “teologia della liberazione” dell’ideologo Ali Shariati (1933-1977). Quest’ultimo nacque nel Khorasan (Regione storica dell’Asia, corrispondente alla provincia più orientale dell’Impero persiano, oggi è divisa in 3 parti: all’Iran è restata la parte sud- ovest con capoluogo Mashhad, al Turkmenistan la parte nord, all’Afghanistan la parte sud-est, cioè Herat). Dopo gli studi di prima formazione, Ali Shariati si trasferì in Francia ove conseguì un dottorato in Sociologia alla Sorbona, nonché ebbe stretti rapporti con leader dell’indipendenza algerina ed esponenti della sinistra occidentale dell’epoca, ancorati all’ideologia marxista. Influenzato dalla cultura occidentale – e dalla dottrina marxista – elaborò sue personali teorie, rimanendo tuttavia ancorato ai valori della religione islamica sciita. Tornato in Iran nel 1963, fu immediatamente arrestato con l’accusa di aver avuto contatti con dissidenti iraniani all’estero. Rilasciato, fu comunque ancora perseguitato – sempre a causa delle sue idee – e nel 1975 emigrò a Londra dove morì nel 1977.
L’ideologia Shariati, il Corano e la rivoluzione islamica
Il fondamento dell’ideologia di Shariati fu il principio della unicità, ovvero del tawhid che nell’Islam rifiuta la separazione fra mondo terreno e mondo ultraterreno, fra religione e politica, fra politica e società. Congiunte a tale principio, le sue idee rifiutavano ogni separazione: razze diverse, padroni e dipendenti, ricchi e poveri, ecc… Sulla base dei suddetti fattori, espresse una concezione del mondo umanista denunciando tutti quegli elementi corruttori che compromettevano la giustizia e l’uguaglianza. Shariati divenne così il nemico della “cultura occidentale”, accusata di aver intossicato la società iraniana e tutta l’area islamica. Ricorse al Corano per attirare reiteratamente l’attenzione sugli “oppressi della Terra”, per contrapporre “oppressi ed oppressori”, usando i termini coranici mostadafine (diseredati) e mostakbirine (arroganti), trasferendo così la lotta di classe nel repertorio islamico. Inoltre rielaborò il principio del martirio tipico della cultura sciita (shahada) con una prospettiva politico-rivoluzionaria finalizzandone l’impiego alla liberazione dall’oppressione. Le teorie di Shariati ibridarono le prospettive rivoluzionarie marxiste con le aspirazioni dei diseredati islamici sciiti, delle quali inizialmente si avvalse il partito Tudeh per raccogliere consensi tra giovani ed indigenti nelle proteste contro lo Scià. Il linguaggio rivoluzionario di Shariati fu comunque ripreso da Khomeini in chiave religiosa che ne fece l’ossatura dell’ideologia della sua rivoluzione islamica divenuta così nazionalista con influenze marxiste. Il celebre motto “neither East nor West but Islamic Republic” – agenda della sua politica estera – ne è l’attestazione con la quale ha sfidato, per un decennio, l’imperialismo delle Potenze straniere. Con tale retorica, il khomeinismo ha attirato il consenso della popolazione, principalmente delle classi meno abbienti o “diseredati”, alle quali si rivolgeva.
La rivoluzione islamica iraniana, inoltre, pose subito al bando bevande alcoliche, gioco d’azzardo e prostituzione, omosessuali, stupro, ed adulterio e comunque comportamenti difformi dalla Sharia (le donne dovettero coprire braccia e gambe, non usare abiti succinti, coprire il capo con un velo per nascondere i capelli). L’azione rivoluzionaria trasformò lo sciismo in ideologia politica, caratterizzata da una dimensione onnicomprensiva che incorporava sia l’ambito pubblico sia quello privato. Nella visione di Khomeini, il “clero” combattente doveva rifiutare la concezione attendista dello sciismo ma aveva il dovere di assumere il potere fino all’avvento del Mahdi, per impedire che a governare fossero regimi empi e avversi della religione. In mancanza del Mahdi, Khomeini riteneva che i sapienti e gli esperti della legge islamica avessero il dovere di esercitare il potere. Da qui il concetto di velayat-e faqih, la “tutela del giureconsulto”, che sarà alla base della nuova Costituzione della Repubblica Islamica. Siffatta concezione può essere considerata quale compito assegnato allo Stato iraniano – sotto la guida di un governo virtuoso – di diffondere nel mondo i valori della Rivoluzione iraniana. La stessa Costituzione islamica iraniana preparò il terreno affinché tale rivoluzione proseguisse sia all’interno che all’esterno del Paese. In particolare, si impegnava e si impegna tuttora nella diffusione delle idee rivoluzionarie – in termini di rapporti internazionali con altri movimenti islamici e popolari – mirata a rendere possibile l’attuazione di un’unica Ummah mondiale.
Di conseguenza, accanto agli organi istituzionali iraniani fu data origine a varie organizzazioni rivoluzionarie che – tramite l’abbinamento di “componenti” ideologici con “fattori” economico-politici – avevano ufficialmente il fine di realizzare gli ideali di giustizia islamica e di redistribuzione delle ricchezze, quest’ultime obiettivo della rivoluzione. Numerose fondazioni (bonyad) sorsero all’indomani della rivoluzione – nel 1979 – fra cui la Fondazione dei diseredati e dei veterani di guerra (bonyad-e mostazafin va janbazan) e la Fondazione dei Martiri (Bonyad-e shahid). Entità che hanno dato vita a una particolare forma di “stato sociale” a sostegno dei meno abbienti, delle famiglie dei martiri e dei militari, offrendo posti di lavoro, alloggi popolari, assistenza sanitaria e borse di studio, non solo nell’ambito del territorio nazionale ma anche all’estero.
Sulle Fondazioni si basava l’ideologia dell'”esportazione della rivoluzione”, peculiarità del decennio khomeinista (1979-89) che l’ayatollah Khomeini e il gruppo di suoi sostenitori religiosi radicali patrocinavano. Costoro elaborarono una strategia per replicare l’esperimento della rivoluzione e del governo islamico iraniano anche in altri Paesi della regione. Il primo venne realizzato in Iraq con la costituzione nel 1982 – durante la guerra Iran-Iraq – dello SCIRI (acronimo dell’espressione inglese “Supreme Council for the Islamic Revolution” in Iraq), ad opera dell’ayatollah Muhammad Baqir al-Hakim, come gruppo di opposizione a Saddam Hussein. Lo SCIRI ha subito nel tempo varie trasformazioni passando da partito “Organizzazione Badr per la Rivoluzione Islamica in Iraq”, a “Movimento Nazionale della Saggezza” quale è oggi. Il modello dirompente della Repubblica islamica iraniana – con il suo “carico” di assistenza sociale e radicalismo, con i suoi appelli ai musulmani degli altri Paesi a ribellarsi a governi corrotti e ingiusti, con i suoi tentativi di esportazione della rivoluzione in altri Paesi della regione – rappresentava dunque un pericolo per l’ordine regionale. La posizione strategica a livello internazionale dell’Iran, unitamente all’importanza del Golfo Persico nonché di tutta l’area medio orientale nello scacchiere mondiale, hanno inizialmente favorito la diffusione della Rivoluzione islamica iraniana a tutta la popolazione musulmana di tale area, con un’influenza di portata internazionale, in quanto emblema della vittoria degli oppressi sugli oppressori.
Di fatto, la Rivoluzione iraniana faceva nascere il primo esperimento di governo islamico guidato direttamente da religiosi, con una palese e indubbia sfida agli altri governi della regione ed alla loro legittimità basata sulla religione islamica: prima fra tutti l’Arabia Saudita. Ed è proprio nel 1979 che ha avuto origine lo strappo tra i due Paesi, tradottosi poi in una rovinosa ed ininterrotta contesa. L’ideologia rivoluzionaria khomeinista era ed è percepita dai Saud con sospetto e timore, ritenendo che quanto accaduto al di là del Golfo Persico fosse una potenziale minaccia al proprio modello statuale basato sulla stretta alleanza religiosa wahhabita e, soprattutto, sulla legittimità del proprio ruolo quale custode dei luoghi sacri dell’Islam, La Mecca e Medina.
La guerra Iran-Iraq (1980-1988), inoltre, acuì l’ostilità – della quasi totalità dei Paesi della regione – contro la neonata Repubblica Islamica che si palesò fin dal 1980. Da quell’esperienza nacque il senso di “totale solitudine” che ancora oggi determina l’azione strategica iraniana nella regione. La percezione di un senso di assedio – cioè di accerchiamento da parte di tutti i Paesi vicini – contro la nuova realtà politica islamica, si è rafforzata nel corso degli anni con la progressiva ricerca iraniana di un proprio ruolo regionale: la derivata esportazione del khomeinismo è avvenuta in funzione della ricerca dell’accennato ruolo, facendo ricorso soprattutto alla dawa – predicazione e proselitismo islamico – denominazione conferita all’azione espansiva di propaganda e conversione.
L’esportazione del modello rivoluzionario khomeinista è stata poi condizionata e “arginata” da vari fattori: in primis l’invasione sovietica dell’Afghanistan (dicembre 1979), seguita dalla guerra Iran-Iraq (1980), poi dalla Prima guerra del Golfo (1991), dall’attentato alle Torri Gemelle (2001), dalla Seconda guerra del Golfo (2003) ed infine dallo sviluppo delle «primavere arabe» (2011). L’attuale dirigenza iraniana, inoltre, ha percepito come eccessivamente costoso – sia in termini monetari sia di reputazione – l’esportazione della rivoluzione allo scopo di rovesciare governi e instaurare altre repubbliche islamiche. Di conseguenza la leadership sciita ha preferito mantenere un cordiale rapporto con gli altri Paesi della regione, sia come “difesa avanzata” sia come possibilità di intervento ovunque i suoi interessi vengano minacciati.
I Sunniti e Osama bin Laden
La risposta dell’universo sunnita, all’esportazione della rivoluzione iraniana, non tardò a venire. Dopo secoli di quietismo e di pacifica convivenza, fra le due fedi religiose in contrasto (sciismo/sunnismo), ci fu l’evento scatenante del risveglio della contesa. Infatti, il 20 novembre 1979, durante il pellegrinaggio a La Mecca ci fu un attacco armato ad opera di dissidenti sauditi provenienti dal Najd (regione del centro dell’Arabia Saudita, la cui principale città è Riad) nell’area della grande Moschea Al-Haram. Gli insorti dichiararono che il Mahdi era tornato nella persona di uno dei leader dei rivoltosi, invitando i pellegrini ad obbedire a quest’ultimo. Inoltre, la moschea fu assediata e centinaia di pellegrini vennero presi in ostaggio. L’assedio terminò dopo due settimane, concludendosi con l’uccisione di quasi tutti gli ostaggi – unitamente a centinaia di rivoltosi e molti rappresentanti delle forze di sicurezza – nello scontro a fuoco che ne derivò per il controllo dell’area ove è ubicata la suddetta moschea. L’assedio disorientò la Casata saudita che percepì palesemente il pericolo della rivoluzione khomeinista, che aveva innescato la rivolta. Ma il casus belli fu determinato dall’invasione sovietica dell’Afghanistan (dicembre 1979). In tale nuovo scenario, l’esportazione della rivoluzione iraniana – già in fieri in Iraq con lo SCIRI – si accingeva ad interessare anche l’Afghanistan e il Pakistan, influenzando l’etnia hazara (afghana) di fede sciita. L’Arabia Saudita in tutta risposta avviò il finanziamento in petrodollari sia di movimenti islamici sunniti – che si opponevano all’Iran – sia di movimenti in Afghanistan che contrastavano l’atea Unione Sovietica. Ne derivò lo sviluppo di una rete di istituzioni per la formazione religiosa, moschee, università, ecc. che favorirono la diffusione – al di fuori dei propri confini – dell’Islam in chiave wahhabita. L’Afghanistan, governato allora dal Partito Democratico Popolare dell’Afghanistan (PDPA) di stampo marxista-leninista, era sostenuto dall’Unione Sovietica. Il PDPA aveva attuato un programma di modernizzazione di stampo social-comunista, al quale non era affatto favorevole il “clero islamico” in quanto le riforme imposte erano contrarie ai principi tradizionali e religiosi afghani. Pertanto i mullah afghani diedero vita – nelle zone montuose dell’Afghanistan – a vari raggruppamenti guerriglieri, collettivamente noti come mujaheddin, che avviarono iniziative di resistenza armata. Tali gruppi furono inizialmente supportati e finanziati da Pakistan ed Arabia Saudita, cui poi si aggiunsero Stati Uniti, Regno Unito e Cina all’atto dell’invasione sovietica.
Ma la guerriglia dei mujaheddin sunniti non trovò una dimensione unitaria, né una comune guida politica o militare. Dopo alcune iniziali indecisioni, il governo (militare) pakistano del generale Muhammad Zia ul-Haq decise di sostenere la guerriglia afghana, anche per timore di una minaccia sovietica ai confini del suo Paese: per la posizione geografica. In particolare, per la fragilità della lunga linea di confine terrestre (2670 Km.) che separa Afghanistan e Pakistan, nota come “Linea Durand”. Lo stesso Pakistan divenne rapidamente un “santuario” della guerriglia, un luogo dove radunare truppe e rifornimenti fuori dalla portata dei sovietici.
Tuttavia, i vari gruppi di mujaheddin rimasero divisi per tutta la durata del conflitto. Ciò in funzione delle regioni di provenienza, dei clan di appartenenza e a causa delle varie ideologie politiche e religiose seguite. Nel 1981 il Pakistan tentò di dare vita ad una loro organizzazione unitaria, la Ettehad-i Islami Mujahidden-i Afghanistan (“Unità islamica dei Mujaheddin Afghani” o IUAM), che dopo circa un anno si frantumò in due gruppi principali – suddivisi in fazioni – catalogabili macroscopicamente in ragione delle idee: fondamentalisti e moderati. Tutti i citati gruppi erano indicati come “Peshawar 7” (Nota1), denominazione dell’area ove era collocata la loro direzione strategica. Gli sciiti hazara delle regioni centrali furono esclusi dal Peshawar 7, che raggruppava solo tutti i gruppi di matrice sunnita, per cui – separate da Peshawar 7 – si formarono due fazioni proprie della etnia – poiché nell’area (Hazarajat- regione hazara) operavano due partiti sciiti separati:
- lo Shura-i Inqilabi (“Consiglio rivoluzionario”) che, guidato da Sayid Ahmed Beheshti, riuscì a imporre un governo- ombra sulla regione hazara;
- la sua opposizione rivoluzionaria la Sazmar-i Nasr (“Organizzazione per la vittoria”), entrambi finanziati dall’Iran, che raggiunsero un accordo per operare congiuntamente nel 1985.
La guerriglia sunnita trovò una direzione unitaria solo nella seconda metà del 1984, inizialmente con unità più organizzate – i cosiddetti “Reggimenti islamici”, costituiti dagli elementi più giovani e dotati di un peculiare addestramento militare fornito loro nei campi pakistani – e successivamente con:
- l’intervento di agenti CIA che si occuparono dell’addestramento dei loro omologhi pakistani dell’ISI, accrescendone le capacità di condurre operazioni segrete;
- il rifornimento di armi, equipaggiamenti militari nonché l’addestramento di afghani reclutati nei campi profughi pakistani;
- il finanziamento, soprattutto ad opera dell’Arabia Saudita, che fornì milioni di dollari per acquistare armi e rifornimenti. Il servizio segreto saudita fu inoltre coinvolto nell’addestramento e nell’invio in Afghanistan dicombattenti volontari provenienti da tutto il mondo islamico;
- la gestione dell’ISI pakistano – con riferimento ad addestramento dei guerriglieri, rifornimenti di armi e distribuzione del denaro raccolto – che consentì loro di favorire nei rifornimenti quei gruppi di mujaheddin più graditi al governo pakistano, come l’HIH di Gulbuddin Hekmatyar;
- la fondazione, nel 1984, di “Maktab al-Khidamat al- Mujahidin al-Arab” [o semplicemente Maktab al-Khidamat (MAK), anche noto come “Bureau of Afghan Services” o anche “LA CASA”] ad opera di Abdullah Azzam, Wael Hamza Julaidan, Osama bin Laden e Ayman al-Zawahiri – massicciamente finanziato da Pakistan, Arabia Saudita e Stati Uniti – nel periodo 1985-1989.
L’ideologo dell’organizzazione fu l’attivista palestinese Abd Allah al-Azzam ed il finanziatore il miliardario saudita Osama bin Laden. L’organizzazione istituì campi d’addestramento in territorio pakistano ed ebbe accesso ai fondi raccolti per la guerriglia tramite l’ISI pakistano. La struttura di base del MAK fu poi utilizzata da bin Laden per costituire la propria organizzazione di al-Qaeda.
Nel 1988, bin Laden lasciò il Maktab al-Khidamat – unitamente a molti dei suoi militanti – per sviluppare un ruolo più incisivo di carattere militare. Uno dei principali punti, che portano alla scissione e alla realizzazione di al-Qaeda, fu quello di costituire una formazione islamica organizzata con l’obiettivo di impiegare “la parola di Dio per rendere la sua religione vittoriosa” a livello globale.
L’11 agosto 1988, in un incontro tra “comandanti” della Jihad Islamica Egiziana, Abd Allah al-Azzam e Bin Laden, si convenne di unificare i capitali di bin Laden con l’esperienza operativa della Jihad Islamica Egiziana per sostenere altrove la causa jihadista allorquando fossero stati cacciati i sovietici dall’Afghanistan. I requisiti per l’adesione ad al Qaeda prevedevano fra l’altro: capacità di ascolto, buone maniere, obbedienza e giuramento (in arabo bayat), in segno di sottomissione e riconoscimento dei propri superiori. Nasce così la prima meteora terroristica sunnita avente come obiettivi: la liberazione dei paesi musulmani dall’occupazione degli USA e dei suoi alleati; una campagna rivoluzionaria contro i regimi laici e “sunniti infedeli” che governano il mondo islamico e un’azione di vigile controllo della crescente influenza della rivoluzione iraniana.
Molte saranno le vittime sciite del terrorismo soprattutto in Iraq, prima con al Qaeda in Iraq (AQI) guidata da Zarqawi e poi con l’ISIS del califfato di al Baghdadi.
Abdallah Azzam, è stato il vero «pensatore» di al-Qaeda, colui che ha gettato le fondamenta teologiche del jihadismo per la costituzione del califfato globale. Secondo il suo pensiero i «miscredenti» – sia mussulmani sia non mussulmani – volenti o nolenti dovevano convertirsi spontaneamente, altrimenti sarebbe stato lecito ucciderli indipendentemente da qualsiasi vincolo morale e legale.
Il terrorismo jihadista, quale “jihad globale” nasce quindi, come “creatura” dell’ideologo palestinese – per la realizzazione del califfato – e frutto della combinazione di intrighi geopolitici, petrodollari, Wahhabismo, Fratellanza Musulmana e modelli di sviluppo fallimentari. I combattenti stranieri affluiti a Peshawar per combattere contro i sovietici erano prevalentemente giovani contestatori dei rispettivi governi, contagiati dagli effetti della rivoluzione iraniana, di cui le rispettive Autorità ne favorirono l’esodo sia per mantenere lo status quo all’interno dei vari Paesi sia per contrastare contestualmente l’esportazione della rivoluzione iraniana.
Tale scelta politica si rivelò però miope poiché le giovani leve – quasi tutte militanti nelle fila di Al Qaeda – furono collettivamente indottrinate, dal punto di vista religioso, tramite un miscuglio di principi intransigenti. Dettami del salafismo wahhabita (Nota 2) che imponeva dall’alto gli antichi precetti religiosi misti a credenze più tolleranti – queste ultime sostenute dai Fratelli Mussulmani – finalizzate ad una capillare penetrazione nel sociale per la realizzazione di uno Stato Islamico basato sulla Sharia.
La Fratellanza Musulmana, quale organizzazione politica, ha sempre teso ad una “islamizzazione dal basso” attraverso l’educazione e la propaganda negli strati sociali. I fondamentalisti wahhabiti, invece, hanno sempre mirato ad una “islamizzazione dall’alto”, imposta anche con il jihad. I giovani, inoltre, furono addestrati in efficaci tecniche di guerriglia per contrastare l’esercito sovietico, rendendoli simili – con tale formazione – a unità di Forze Speciali.
Detta scarsa lungimiranza emerse evidente allorché furono cacciati i sovietici dall’Afghanistan ed i giovani combattenti tornati nei rispettivi Paesi – 1990/1991 – avviarono manifestazioni di protesta, fomentate anche dall’Iran, che sfociarono nella formazione di gruppi terroristici con attentati per la costituzione di repubbliche islamiche.
L’Iran khomeinista non tardò ad inserirsi in questo nuovo contesto rivoluzionario e nella primavera del 1992 allacciò stretti rapporti con Hassan al Turabi, leader sudanese della Fratellanza Musulmana. Turabi aveva fondato nel 1991 la “Conferenza Popolare Araba e Islamica” con cadenza annuale nel corso della quale si incontravano molti gruppi rivoluzionari islamici provenienti da tutto il mondo, tra cui rappresentanti di: Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), Hamas, Jihad islamica egiziana, Jihad Islamica Algerina e Hezbollah. In seno alla nominata Conferenza, Turabi sosteneva che i regimi fantoccio – costituiti dagli USA e dai suoi alleati nell’area medio orientale – erano i veri nemici contro cui combattere il Jihad.
Tali idee consentirono al leader sudanese di instaurare un’intesa con Khomeini per lo sviluppo di una rivoluzione islamica senza distinzione fra sciiti e sunniti. Khomeini offrì il suo aiuto per diffondere la rivoluzione islamica nell’area africana tramite il reclutamento, l’addestramento ed il coordinamento di nuove leve in favore delle varie organizzazioni dedite al jihad. Con la diffusione di tali teorie, il Sudan divenne l’area di raccolta e di addestramento del “Movimento Islamico Armato” (AIM), meglio noto come “Legione Internazionale dell’Islam”, struttura che ebbe basi in Sudan, Pakistan e Afghanistan, dove i nuovi adepti ricevevano – da esperti – addestramento per condurre operazioni sovversive e terroristiche.
Sempre nel 1992 riparò in Sudan anche Osama bin Laden il quale – tornato in Arabia Saudita nel 1990 – era stato accolto come eroe del jihad per aver sconfitto con la sua “legione araba” la “superpotenza” dell’Unione Sovietica. Questo idillio però non tardò ad infrangersi sull’invasione irakena del Kuwait, (agosto 1990). La Coalizione – sostenuta dall’ONU per la liberazione del Kuwait dall’invasione irakena e guidata dagli USA – nel gennaio del 1991 fu ospitata dall’Arabia Saudita per condurre le operazioni militari contro gli iracheni. La presenza di militari stranieri – in particolare statunitensi sul suolo saudita – irritò bin Laden che denunciò pubblicamente la completa dipendenza militare del regno Saudita dagli Stati Uniti. Probabilmente il “guerrigliero saudita” non conosceva gli “arcana imperii” contenuti nel “Patto di Quincy” (Nota 3).
Al fine di ostacolare la suddetta presenza, bin Laden organizzò manifestazioni di protesta contro i reali sauditi, tanto da peggiorare le relazioni con gli stessi che lo privarono della cittadinanza. Nel 1992 bin Laden fu costretto a vivere in esilio in Sudan ove trasferì una nuova base operativa per la sua organizzazione Al Qaeda, anche per supportare tutte le attività sovversive e terroristiche di Turabi, fino al 1996. In quell’anno l’ONU impose sanzioni al Sudan per l’ospitalità fornita al Movimento Islamico Armato e l’assistenza fornita al Jihad Islamico Egiziano nel tentativo di assassinare il presidente Hosni Mubarak in visita nel 1995 ad Addis Abeba. Negli anni di permanenza in Sudan, l’organizzazione al Qaeda di bin Laden fornì assistenza finanziaria e, talvolta, anche militare a jihadisti in Somalia, Algeria, Egitto e Afghanistan. Nel maggio 1996, a causa delle pressioni esercitate sul Sudan – da Arabia Saudita, Stati Uniti e ONU – bin Laden fu costretto a tornare a Jalalabad (Nord Est Afghanistan) ed il 23 agosto 1996, “dichiarò guerra” agli Stati Uniti. Si interruppe così il sodalizio fra Turabi, Fratellanza Musulmana, bin Laden ed Iran, costretto a ridimensionare ancora una volta le proprie velleità di esportazione della rivoluzione khomeinista nell’area africana. Il ritorno di bin Laden in Afghanistan ed il suo stretto legame con il governo talebano del Mullah Omar divenne foriero di numerosi attentati contro gli Stati Uniti ad opera di al Qaeda: attentati culminati con quello alle Torri Gemelle (11 settembre 2001).
Il catastrofico attentato condusse gli Stati Uniti a dichiarare guerra al terrorismo islamico, che non è stato debellato ma anzi ne ha moltiplicato le metastasi prima in Iraq e poi altrove, dopo la sconfitta militare del califfato di Abu Bakr al- Baghdadi. Le ambizioni iraniane di esportazione della rivoluzione islamica sono state definitivamente annientate nel 2003 quando il fondatore dello SCIRI iracheno, l’ayatollah Muhammad Baqir al-Hakim ed altri notabili sciiti furono uccisi a Najaf – mentre stavano lasciando la Moschea sciita dell’Imam Alì – da un attentato perpetrato con auto bomba dall’allora “al Qaeda in Iraq” (AQI), guidata dal sanguinario terrorista giordano Abu Musab al Zarqawi.
Wahhabiti e Fratelli Musulmani
L’Arabia Saudita nonostante gli sforzi, non è comunque riuscita a neutralizzare il suo acerrimo nemico iraniano. Nel merito ha condotto una politica ambigua e avventuristica nella prospettiva di esercitare un’egemonia conservatrice o decisamente reazionaria sul mondo sunnita, sia nell’area del Golfo sia in proiezione globale, finanziando gruppi integralisti e violenti: dai talebani in Afghanistan ad al-Nusra nella guerra civile siriana, allo stesso ISIS. Questa doppiezza non solo ha raffreddato i suoi rapporti con l’Occidente ma ha anche rimesso in discussione la pacifica convivenza con le analoghe aspirazioni coltivate dai Fratelli Musulmani aprendo un fronte conflittuale all’interno dell’Islam sunnita. Il fronte conflittuale fra Wahhabismo e Fratellanza Musulmana in ambito sunnita era già attivo, ma silente negli anni precedenti. L’ideologia, le strutture e le finalità dei due movimenti pur se entrambi ispirati alla Salafia, sono in parte divergenti.
La Fratellanza Musulmana
Ideologia
Nata in Egitto nel 1928, ad opera di Hasan al-Banna (1906¬1949) che si riallacciò al fondamentalismo propugnato da Rashid Rida, secondo il quale il risveglio dell’Islam doveva passare attraverso il ritorno alle fonti (pii antenati): eliminazione sia delle innovazioni sul piano teologico sia del culto dei santi sul piano antropologico, con rifiuto dell’occidentalizzazione in analogia al pensiero di Ibn Taymiyya il quale aveva sostenuto l’obbligatorietà del jihad contro i Mongoli pagani conquistatori. Sayyid Qutb (1906 – 1966), succeduto ad al Banna nella guida dell’organizzazione, introdusse il concetto secondo il quale la jahiliyya (ignoranza) non era legata a un ben definito periodo storico ma a tutti quei momenti storici ove la rivelazione di Maometto era dimenticata o non rispettata. Di conseguenza per combattere le società corrotte, come quella egiziana all’epoca, subordinata alla colonizzazione britannica, occorreva ricorrere al jihad – alla stregua di quanto Taymiyya predicava contro i Mongoli – poiché la divulgazione del messaggio coranico era impedita o stravolta.
la Fratellanza Musulmana, quindi, auspica la riforma della società islamica inquinata dalla cultura e dal colonialismo occidentale da realizzare gradualmente attraverso varie fasi:
- in primo luogo la conversione dell’individuo all’Islam salafita “degli antenati” (epoca dei cosiddetti “4 califfi ben guidati”) cioè un ritorno dell’Islam alla fonte pura del Corano e della Sunna (Sunna = consuetudine, modo di comportarsi di Maometto nelle varie circostanze della vita, desunta dalle tradizioni di detti e fatti del profeta, considerati autentici, che ha valore di norma e di esempio per i credenti) e del loro rigoroso rispetto;
- poi la riforma spirituale e dei costumi – ripulendoli da tutti gli inquinamenti sopravvenuti – per trasformare la famiglia e la società per tendere alla fondazione di un governo islamico basato sulla Sharia;
- infine la diffusione della “dawa islamica” (propaganda e conversione all’Islam) in tutto il mondo per la costituzione di uno stato islamico basato sull’assistenza sociale, retto dal califfo.
La Struttura
L’organizzazione è stata articolata fin dalla fondazione in:
- “unità familiari”, sezioni o divisioni distribuite nei quartieri delle città;
- “uffici amministrativi” per sostenere le campagne di stampa, la pubblicazione di opuscoli, i viaggi di propaganda, ecc.;
- “Consiglio della shura”, un organismo consultivo per fornire suggerimenti di ordine politico, giuridico ed economico;
- ” Ufficio di orientamento” per indirizzare le scelte politico-strategiche;
- “Guida suprema” che dirige tutta l’organizzazione.
Tale struttura è molto simile a quella di un partito politico moderno con elevata capacità di penetrazione nel tessuto sociale di un paese attraverso iniziative caritatevoli ed assistenziali. Gli istituti caritatevoli islamici, le banche islamiche, le attività di carità islamica (Zakat), le scuole islamiche, i centri sportivi ed altri enti hanno il duplice scopo di diffondere il messaggio dell’Islam e allo stesso tempo di promuovere la Zakat per sostenere il jihad. L’organizzazione, in pratica, è una struttura gerarchica dominata dalla “Guida Suprema” alla quale sono subordinati sei livelli amministrativi, che includono nei loro ranghi diversi membri scelti dalla Fratellanza e cooptati attraverso l’indottrinamento. L’insegnamento dell’Islam è rivolto principalmente ai giovani e solo chi comprende a fondo tali insegnamenti può intraprendere il jihad, approccio che contribuisce tuttora a creare un pervasivo senso di dedizione tra i membri, dando loro un obiettivo e un piano d’azione a lungo termine.
L’Apparato dei Fratelli Musulmani
Durante la Seconda Guerra Mondiale, iniziò a svilupparsi un’ala militare denominata “Apparato”, che disponeva di ampia autonomia d’azione e che, probabilmente, sfuggiva al controllo della “Guida suprema” (al-Banna). Questa fazione, reduce dalla Palestina dove aveva combattuto volontariamente – tra le fila dell’Esercito Arabo di Liberazione (EAL) durante gli ultimi 6 mesi del Mandato britannico contro le comunità ebraiche – interpretò la sconfitta delle forze arabe come un tradimento della religione islamica. L’”Apparato” accusò i governi arabi – specie quello egiziano – di non aver aiutato i fratelli palestinesi e fu l’artefice di vari attentanti, fra cui quello del 28 dicembre del 1948, quando assassinò il Primo ministro egiziano Fahmi Al-Nuqrashi Pasha, ritenuto colpevole di aver approvato un decreto di scioglimento dei Fratelli Musulmani.
Gli Obiettivi
L’obiettivo fondamentale della Fratellanza è ricondurre le pratiche dell’Islam alle origini per ripristinare il califfato, praticando varie attività finalizzate a:
- Informare il mondo sull’Islam e diffonderne l’insegnamento;
- Unificare il mondo sotto il vessillo dell’Islam;
- Innalzare il tenore di vita e sostenere la giustizia sociale;
- Combattere le malattie, la povertà, l’ignoranza e la fame attraverso l’insegnamento dell’Islam;
- Liberare la nazione islamica (Ummah) dalle regole degli infedeli;
- Creare un governo universale islamico basato sulla Sharia e sull’Islam (califfato).
L’obiettivo finale è dunque la costruzione di un califfato globale (Stato Islamico) in cui il Califfo (monarca) regna applicando norme e leggi conformi alla Sharia (legge islamica).
La Strategia della Fratellanza Musulmana
La strategia adottata dalla Fratellanza Musulmana per raggiungere gli obiettivi non è rigorosa ma flessibile cioè modellabile a seconda degli ambienti, delle circostanze e delle situazioni ma sempre finalizzata al raggiungimento degli obiettivi sopracitati. La parola d’ordine è “gradualità”, una strategia essenziale che la Fratellanza adotta per insinuarsi progressivamente nelle società e poter poi conquistare il potere. La tecnica “gradualista” è molto astuta perché penetra in ogni ambiente fornendo una falsa sensazione di moderazione tanto che in molti Paesi, compresa l’Italia, la Fratellanza è considerata l’Islam moderato. I fondamenti teologici della strategia della gradualità sono stati delineati dallo sceicco Yussef al-Qaradawi che, nelle sue linee guida, ha ricordato come la Sharia (legge islamica) vada introdotta in maniera graduale persino nei Paesi islamici (nessun taglio di mani nei primi cinque anni).
Il “Progetto”
In una guida scritta denominata “Progetto”, sequestrata nel 2001 a Lugano dall’FBI statunitense durante una operazione volta a sgominare una organizzazione che finanziava il terrorismo islamico si legge: “…Il processo di imposizione della Sharia (islamizzazione) in America deve essere una sorta di Grande Jihad volta a distruggere la civiltà occidentale dal suo interno e «trasportare» le loro case dalle mani dei miscredenti a quelle dei credenti in modo graduale”. Nel documento era anche ben delineata la “strategia della gradualità” che prevedeva due fasi principali divise a loro volta in altre fasi minori:
1: graduale sviluppo della comunità islamica in occidente;
2: progressiva diffusione dell’Islam nella sfera politica occidentale.
Alle due fasi erano collegate altre sotto-fasi:
- Fase 1: Dawa (propaganda e conversione all’Islam) caratterizzata dalla formazione con la creazione di centri di studio e di preghiera per tutti i musulmani insegnando loro i principi dell’Islam. Si sviluppa con la costruzione di moschee o luoghi di preghiera e di comunità;
- Fase 2: Dawa parte seconda, consistente nel fare proselitismo con mezzi pacifici dei non musulmani, per convertire quanti più settori della società occidentale attraverso la diffusione di letteratura islamica, conferenze e collaborazione con la “comunità ospitante”;
- Fase 3: il jihad, ricorso alla violenza, ove necessario, per diffondere l’Islam. Questa fase introduce esplicitamente l’uso della violenza che all’inizio deve essere solo di carattere difensivo, cioè volta a liberare territori musulmani dagli infedeli. Il jihad può essere sviluppato sia contro i non musulmani sia contro i governi musulmani che sono considerati “takfir”, cioè empi perché non rappresentano il “vero Islam”;
- Fase 4: Khalipha, il Califfato, ultima fase tesa alla ricostituzione di un califfato islamico e alla diffusione dell’Islam in tutto il mondo.
Il Wahhabismo
L’Ideologia
Il Wahhabismo è una corrente religiosa sunnita integralista e totalizzante che assomma in sé idee politiche, sociali e religiose, basandosi su una rigida interpretazione del Corano e della Sunna. Ideologo del Wahhabismo è stato Muhammad ibn Abd al-Wahhab da cui il movimento religioso ha anche preso il nome. La dottrina wahhabita sorse intorno al 1730/1740 in quanto i costumi di allora erano ritenuti corrotti e non conformi alla vera tradizione islamica. Allora Wahhab iniziò a predicare il ritorno alla fede originaria per purificare l’Islam ed eliminare tutte le influenze culturali straniere e coloniali che lo avevano corrotto, alla stregua di quanto fatto a suo tempo da Ibn Taymiyya. Questa purificazione prevedeva un’interpretazione letterale del Corano e della Sunna, così come avevano fatto i cosiddetti “al-salaf al-salihin”, ossia i “pii antenati”, con un controllo molto rigido sui comportamenti sociali.
Nel 1744 Wahhab – che fino a quel momento era stato poco ascoltato nel professare le sue idee religiose – strinse un patto di reciproca fedeltà con l’emiro Muhammad bin Saud, il capostipite della famiglia saudita, denominato Patto del Najd. Il Wahhabismo fu allora accettato dai Saud e divenne dottrina dello Stato saudita, introducendo la netta separazione tra maschi e femmine, il divieto assoluto di bere alcolici o fumare, ecc. In pratica ha realizzato una società molto conservatrice e lontana da ogni apertura verso stili di vita diversi. Sufi e sciiti, furono e sono considerati infedeli alla stregua di tutti coloro che non praticano l’Islam wahhabita.
La Struttura
Trattandosi di corrente religiosa statuale non ha strutture amministrative proprie fatta eccezione della Lega Musulmana Mondiale, istituita da Faisal Saud nel 1962 per promuovere la diffusione dell’Islam nel mondo, nonché delle moschee fra cui dei luoghi sacri di La Mecca e Medina e delle madrase (scuole coraniche). Tuttavia si avvale di organizzazioni a carattere internazionale, specie ONG, utili per la diffusione del credo wahhabita.
Gli Obiettivi
Mantenere ed ampliare la leadership dell’Islam sunnita, difendere e proteggere i luoghi sacri di La Mecca e Medina, legalizzare e conservare la dinastia monarchica dei Saud.
Inizialmente Wahhab ed i Saud per conquistare i vari territori dell’Arabia si avvalsero degli Ikhwan (“fratelli” da non confondere con i Fratelli Mussulmani) una milizia religiosa islamica che costituì la parte preponderante delle forze armate dei Saud. Gli Ikhwan erano membri di tribù beduine, una sorta di “fratellanza religiosa militante” incaricata di insediare i beduini delle tribù arabe intorno ai pozzi di acqua potabile e alle oasi. Secondo il pensiero wahhabita la vita nomade era ritenuta incompatibile con la stretta osservanza dell’Islam. Inoltre erano incaricati di istruire i beduini nei precetti fondamentalisti wahhabiti per l’unificazione del mondo islamico.
La Strategia
All’inizio della conquista arabica gli Ikhwan, guerrieri irregolari tribali, combattevano soprattutto con spade e lance – normalmente attaccavano con rapide incursioni, forma tradizionale di combattimento dei beduini del deserto – cavalcando essenzialmente a dorso di dromedario e uccidendo ogni maschio catturato tagliandogli la gola. Le loro incursioni, si sviluppavano all’interno e fuori del Najd – (“altipiano”) una regione centrale dell’Arabia Saudita, di cui Riyad era la principale città. L’area fu strappata all’Impero Ottomano fra il 1899 e il 1912 da Abd al-Aziz Al Saud, che ne fece il suo sultanato poi trasformato in Arabia Saudita.
Il patto del Najd e la “spartizione” del potere temporale e spirituale
Il patto del Najd, in sostanza fu una “spartizione” del potere, da una parte quello spirituale dall’altra quello temporale; Ibn Abd al-Wahhab nominava gli ulema (gli esperti di scienze religiose islamiche), i cadi (giudici monocratici religiosi) e provvedeva all’istruzione religiosa. Mohammad bin Saud esercitava il potere temporale, cioè nominava i governatori delle province, decideva e gestiva la guerra, riscuoteva le tasse dei sudditi e si impegnava a seguire la dottrina unitaria wahhabita. Questo accordo non solo consentì di unificare l’area in un unico Stato, l’Arabia Saudita, ma intese anche re-islamizzare i musulmani, invitando tutti i sovrani medio-orientali a seguire la via dell’unitarismo wahhabita, pena la dichiarazione del jihad contro di loro.
I vantaggi del patto del Najid per bin Saud e Ibn Abd al-Wahhab
Mohammad bin Saud otteneva così la legittimazione religiosa del suo potere temporale ed Ibn Abd al-Wahhab conseguiva la protezione di un braccio armato che prima gli mancava, inaugurando con i suoi accoliti rigoristi l’espansione della dottrina wahhabita, attraverso il jihad contro i musulmani miscredenti. L’alleanza costituì una forma di potere bicefalo tutt’oggi in vigore: il potere religioso fu conferito nelle mani della famiglia wahhabita, discendenti di Abdelwahhab. Di contro il potere politico venne posto nelle mani dei Saud ove tuttora risiede, una monarchia molto ricca, che ha adottato in parte il capitalismo consumista, ibridando le logiche capitalistiche con l’esigenza politica di un dominio religioso islamico per mantenere il potere.
La ribellione degli Ikhwan
Nel 1926 gli Ikhwan si ribellarono alla casa regnante che voleva introdurre innovazioni come il telefono, le automobili, ecc. I tentativi di placare questa rivolta inizialmente furono vani in quanto gli Ikhwan esposero le loro accuse ai sapienti religiosi (ulema) e provocarono un incidente internazionale distruggendo truppe irachene che avevano violato la zona neutrale iracheno-arabica. Solo nell’ottobre del1928, fu domata con l’uccisione di quasi tutti i loro capi mentre le milizie furono sparpagliate. Nel 1930 i sussistiti furono riorganizzati in forza regolare ed andarono a costituire la Guardia Nazionale dell’Arabia Saudita, ma non ne venne spenta la dottrina estremista. Da allora l’alleanza tra la famiglia reale saudita e il Wahhabismo è stata fragile e per restare al potere i Saud dovettero cedere agli ulema il totale controllo sulla religione.
Il patto del Najd diventa simbolo di lealtà alla famiglia reale saudita
Dopo la Seconda Guerra Mondiale il corteggiamento inglese ed americano nei confronti dell’Arabia petrolifera e la legittima pretesa hascemita sull’Hijaz costrinsero i Sauditi a sviluppare un gioco diplomatico molto sofisticato. Di conseguenza l’ideologia tradizionale dei discendenti di Wahhab fu costretta a mutare ed il patto del Najd, da strumento politico-religioso improntato al jihad rivoluzionario e alla purificazione degli infedeli, divenne declinazione di conservazione sociale, politica e religiosa per il sostegno e la lealtà alla famiglia reale saudita, nonché al potere assoluto del re. Significativo nel merito sono:
- La bandiera dell’Arabia Saudita che consiste in un drappo dallo verde in cui è inserita una frase in arabo che tradotta significa: “Non c’è dio all’infuori di Allah e Muhammad è il suo profeta”. Dal 1973 la bandiera nazionale reca in basso al battente l’emblema di stato in giallo-oro;
- L’emblema di stato, che è formato da due spade incrociate ai piedi di una palma: le due spade richiamano il trionfo del fondatore del regno – Abd al-Aziz – e rappresentano il trionfo militare dell’Islam.
Dal risveglio islamico a ISIS
Sia il Wahhabismo sia la Fratellanza Musulmana sono usciti dai confini entro i quali sono sorti (Arabia Saudita ed Egitto) alla ricerca di una legittimità nel mondo islamico. Anche se all’inizio vi è stata una parziale convergenza grazie al comune riferimento alla Salafia, nel tempo le due correnti sono entrate in una latente conflittualità che nell’ultimo decennio si è trasformata in aperto scontro. Dopo il fallito attentato alla vita di Gamal Abd el-Nasser nel 1956, l’organizzazione dei Fratelli Musulmani fu sciolta e i suoi membri furono costretti ad emigrare. Ripararono in Arabia Saudita, all’epoca grande avversario dell’Egitto schierato su posizioni socialiste. Il rapporto fra il Regno Saudita e la Fratellanza fu inizialmente di mutuo interesse: i Fratelli ottennero protezione e un ruolo chiave nell’educazione, mentre l’Arabia Saudita sfruttò la potente predicazione ideologica della Fratellanza come strumento di contrasto al pan-arabismo egiziano nonché al comunismo sovietico e come leva di potere per assumere l’egemonia sul mondo islamico. Ne sortì un gruppo ibrido che coniugava l’attivismo politico della Fratellanza – avverso ai poteri coloniali e contrario ad una società non pienamente islamica – con la dottrina wahhabita incentrata sulla purificazione del credo religioso.
L’avvento della “Guerra Fredda” fra est ed ovest dopo la Seconda Guerra Mondiale investì anche il mondo arabo-mussulmano con l’esportazione della rivoluzione sovietica. Sicché al contenzioso est-ovest si aggiunse anche quello nord-sud, effetto di un rovinoso fallimento politico, sia del nazionalismo laico importato dall’Occidente sia delle teorie comuniste mutuate dall’URSS. Pertanto molti musulmani si ritennero strumentalizzati sia da est che da ovest e la rivoluzione khomeinista arrivò nel ’79 come un temporale d’estate, catalizzando il malcontento musulmano in tutta l’area nord-africana e medio-orientale. Le forze di opposizione ai vari governi dell’area trovarono un punto di riferimento nella rivoluzione khomeinista. Da qui quella fiammata integralista o il cosiddetto “risveglio islamico”, che ha investito tutto l’Islam e alimentato anche dall’odio verso Israele, verso gli Stati Uniti e quindi verso l’Europa indicata come loro alleata.
In pratica il mondo fu diviso in “Impero del Male o Grande Satana”, attribuito al mondo occidentale” e “Piccolo Satana” dedicato all’URSS. La rivoluzione iraniana, pertanto, appresentò per tutto il mondo islamico – non solo per quello sciita – la prima dimostrazione della possibilità di un radicale rovesciamento dello status quo politico in nome di un “Islam puro”, come riposta alle deludenti politiche di modernizzatori laici, fossero essi nasseriani o baathisti. In definitiva, con Khomeini il mondo islamico recuperò una sua autonoma capacità rivoluzionaria non più derivante dall’innesto, seppur su un sostrato autoctono, di ideologie di matrice occidentale o sovietica. Per conseguire questo obiettivo il mondo islamico, secondo la dottrina khomeinista, avrebbe dovuto rivolgere lo sguardo al passato, alle sue origini, che nel contesto sciita assunsero l’aspetto del governo dell’Imam, mentre in quello sunnita la forma del mito salafita del califfato dei cosiddetti “pii antenati” e dei califfi “ben guidati”.
Il “risveglio islamico” pertanto si inserì nella “Guerra Fredda” con uno scontro Nord-Sud, una sfida per ristrutturare la politica ed il sociale con un’ideologia religiosa, riscoprendo l’insieme di quei legami coranici che mantenevano i rapporti fra i credenti definiti Ummah.
A partire dagli anni Ottanta, l’avvento del cosiddetto “Risveglio Islamico” favorì:
- la “wahhabizzazione” dell’Islam, con miliardi di dollari elargiti ed investiti – ancora tuttora – a sostegno del soft power saudita. Elargizione finalizzata a conquistare e mantenere la leadership sunnita e la custodia dei luoghi sacri dell’Islam che non si riducono solo alle moschee di La Mecca e Medina ma a tutto il territorio saudita. Tesi questa conclamata da eminente rappresentante dei Saud che “considera l’Arabia Saudita come la Città del Vaticano del mondo arabo, territorio in cui non si possono edificare chiese”;
- il Wahhabismo per la sua diffusione a livello planetario, che sfruttò soprattutto i petrodollari elargiti sia privatamente sia attraverso organizzazioni internazionali e/o ONG.
L’indottrinamento avvenne – ed avviene tuttora – finanziando la costruzione di moschee, scuole coraniche, centri culturali islamici, sia nei paesi a maggioranza islamica che nel resto del mondo. In tali luoghi le predicazioni e gli insegnamenti somministrati sono stati e sono più politici che religiosi ed hanno causato la radicalizzazione di centinaia di migliaia di persone in tutto il mondo. Nel vuoto creato dalla decimazione della sinistra laica e del riformismo arabo, sono intervenuti i wahhabiti con risorse finanziarie illimitate, diffondendo globalmente il loro credo non per merito, ma perché ben finanziato anche mediante la Lega Musulmana Mondiale;
- lo sviluppo del cosiddetto “Islam militante”, un coacervo di individui politicamente impegnati nel manipolare a loro piacimento i testi sacri, agevolati dalla mancanza di un unico rappresentate religioso dell’Islam sunnita. A differenza dell’Islam sciita – che ha la figura unificante dell’Imam – quello sunnita ha varie scuole coraniche con diverse correnti al loro interno e predicatori di ogni specie che hanno ispirato la loro propaganda ad una sorta di “Internazionale Musulmana” per realizzare, uno Stato Islamico sul modello del governo di Maometto a Medina tra gli anni 621 e 631. Questo ritorno alla genesi si sarebbe dovuto attuare con la costituzione di uno “Stato Islamico”, di moderna concezione, strumentalizzando il Corano e allevando una gioventù frustrata e stanca di vivere in “banlieu” e/o campi profughi, dove si instilla l’odio;
- l’utopia di uno «Stato Islamico» moderno perché – tanto nel modello sciita di Khomeini, quanto in quello sunnita di Sayyid Qutb, ispiratore dei Fratelli Musulmani – doveva fondarsi sulla giustizia e l’assistenza sociale, su forme democratiche di consultazione popolare volte a limitare l’arbitrio del potere sovrano, oltreché sul Corano e i Detti del Profeta. Obiettivo da conseguire mediante la Jihad –termine che significa «sforzo, impegno», in senso morale e spirituale – ed il jihad inteso come strumento militare e rivoluzionario, difensivo e offensivo. Quest’ultima accezione di jihad, fu riportata trionfalmente in auge proprio nel 1979 sull’onda del successo di Khomeini e del conseguente recupero dell’ideologia sunnita di Qutb nella guerra contro l’URSS in Afghanistan.
L’idillio fra la Fratellanza e il Wahhabismo pertanto cominciò ad incrinarsi con l’avvento del cosiddetto “Risveglio Islamico”, scatenato dalla rivoluzione khomeinista del 1979. I Fratelli Musulmani nei decenni successivi alla loro nascita, si erano trasformati in movimento di riforma politico-religioso, per rinnovare le società islamiche attraverso la ricostituzione nel sociale dei valori religiosi originari. Pertanto, anche se contigua al salafismo wahhabita, la Fratellanza ha sempre rappresentato un pericoloso avversario per le petro-monarchie del Golfo, a causa della sua impostazione ideologica «dal basso», contrapposta al governo monarchico imposto “dall’alto”. Per questo è diventata rapidamente invisa anche agli altri governanti arabi laici, i quali vedono nella Fratellanza un pericoloso oppositore politico capace di attrarre le masse meno abbienti dei loro contestatori interni. L’invasione sovietica dell’Afghanistan del 1979 divenne, pertanto, il banco di prova per la galassia islamista e rappresentò un’opportunità per dimostrare che l’Islam politico, dopo tante battute d’arresto, poteva trionfare. Infatti la guerriglia sviluppata in Afghanistan contro le truppe sovietiche vide per un certo periodo una cooperazione fra Wahhabiti, Fratelli Mussulmani ed altre fazioni della galassia islamista, che supportarono l’ideologia califfale rafforzata e sostenuta negli anni ’80 da Abdullah Azzam.
Questi, esponente di rilievo della Fratellanza, aveva già islamizzato il Pakistan di Zia Ul Hak con l’aiuto dei suoi consiglieri politico-religiosi Abul Ala Maududi e Said Ramadan (genero di al Banna). Questa nuova ibridazione fra il wahhabita Osama bin Laden e i Fratelli Mussulmani Abdullah Azzam e Ayman al-Ẓawahiri, declinò la ricostruzione del califfato attraverso un doppio binario: costituire wilayat regionali anche tramite il jihad e narcotizzare l’Europa e gli Stati Uniti con una penetrazione economica, politica e sociale soft. Al Qaeda, creatura di questa collaborazione, inizialmente fu sponsorizzata da entrambi i movimenti religiosi, ma la convivenza ideologico-strategica fra la dottrina wahhabita e quella della Fratellanza resistette fino al 2006, quando morì al Zarqawi, padre naturale dello Stato Islamico e si frammentò definitivamente nel 2011 con la morte di bin Laden. La morte di Osama bin Laden spense l’artefice del jihad globale che teneva insieme le due anime che propugnavano il califfato – il Wahhabismo e i Fratelli Musulmani – da cui nascono le due facce di una stessa medaglia, al Qaeda prima e ISIS dopo. Dopo la morte di bin Laden la dottrina wahhabita degli Ikhwan diede vita all’ISIS che poco dopo manifestò in tutta la sua crudezza il metodo di combattimento degli Ikhwan, sgozzando in diretta gli “infedeli” maschi catturati e stuprando le donne. Mentre il Qatar continuò a finanziare al Qaeda, rivendicando il suo “Wahhabismo del mare”, un modello più aperto e flessibile rispetto a quello del deserto, praticato dagli Ikhwan e dai Saud, guidata dal Fratello Mussulmano Ayman al Zawahiri.
Arabia Saudita Vs. Turchia
A ben guardare il Wahhabismo, però, non ha mai propugnato la ricostituzione del califfato, bensì l’affermazione della dinastia dei Saud nella creazione e nel mantenimento di uno Stato prospero, favorendo una politica pragmatica e conservatrice, ancorché ancorata ai precetti del della dottrina wahhabita e sostenuta soprattutto dalle ingenti entrate petrolifere. Di conseguenza, nel corso del tempo, si sono affermate due diverse dottrine wahhabite: la prima è quella originaria predicata da Muhammad ibn Abd al-Wahhab e praticata dagli Ikhwan, approccio ideologico che non scomparve negli anni ’30, ma si ritrasse e conservò la propria influenza su alcune parti del sistema saudita, dando luogo a quel dualismo che oggi si riscontra nell’atteggiamento di casa Saud.
L’ideologia degli Ikhwan godeva – e gode ancora oggi – del supporto di tanti uomini, donne e sceicchi influenti che hanno finanziato e continuano a finanziare la galassia estremista del jihad, auspicando la ricostituzione della Ummah salafita ed il ritorno al califfato dei “quattro califfi ben guidati”, in cui il califfo:
- doveva discendere dalla tribù del Profeta ed essere dotto in scienze religiose;
- doveva essere eletto col consenso popolare secondo una precisa procedura dalla Ummah;
- rappresentava il simbolo dell’unità e della compattezza della Ummah, cosa importantissima nell’Islam.
La seconda dottrina è quella della casa regnante saudita, che vede la declinazione del Wahhabismo come legittimazione del suo potere ove l’arena pubblica è stata espressa in termini religiosi e la dottrina si è tradotta in “instrumentum regni”. Strumento governativo utile soprattutto per l’indottrinamento scolastico, il controllo sociale esercitato attraverso la Sharia, la repressione del dissenso e la legittimazione del potere e delle sue scelte.
Da qui lo scontro fra Wahhabiti e Fratellanza Musulmana che con la sua islamizzazione dal basso e la sua “Salafia dal volto umano” predica e pratica l’assistenza sociale e mina il potere del regno saudita che il califfato ridurrebbe ad un semplice sultanato, simile a quello originario dell’Impero Ottomano.
Nel 2002 la Fratellanza Musulmana ha conseguito, oltre al Qatar, un altro sponsor: la Turchia poiché, in quell’anno, sale al potere Recep Tayyp Erdogan, fondatore del partito AKP che si rifà all’Islam politico della Fratellanza. L’avvento di Erdogan interruppe il processo di occidentalizzazione della Turchia e favorì il suo ritorno nell’alveo del sunnismo salafita e neo-ottomano, in linea con la Fratellanza ed in contrapposizione al conservatorismo saudita.
Le ambizioni turche si sono spostate dall’Unione Europea ai Balcani (Romania, Bosnia, Albania, Macedonia, Ungheria e Kosovo), perseguendo un piano di rinascita neo-imperiale dell’Islam politicizzato in strumento di espansione geopolitica negli ex domini ottomani. Per favorire questo rientro, Erdogan ha avviato un piano di finanziamenti tesi alla costruzione – in ogni continente – di moschee adibite alla diffusione dell’Islam predicato dalla Fratellanza. Così il governo turco è diventato un altro hub della Fratellanza Musulmana Internazionale ed è stato più volte accusato di connivenza con gruppi terroristici ai quali avrebbe fornito assistenza finanziaria e militare, mentre il presidente Erdogan è stato definito capo della Fratellanza Musulmana Internazionale.
Il Qatar a sua volta ha ospitato e tuttora ospita, protegge e finanzia i Fratelli Musulmani per surrogare – con una propria sfera di influenza nella regione – quella dell’Arabia Saudita e delle altre petro-monarchie. Ankara e Doha pertanto hanno coltivato la contiguità con la Fratellanza Musulmana Internazionale avendo come fine ultimo quello di affermarsi come nuove guide regionali, approfittando del progressivo ritiro americano dal Medio Oriente. A tal fine hanno finanziato e finanziano moschee, associazioni, partiti e scuole capaci di sviluppare socialmente e politicamente il pensiero della Fratellanza nel mondo musulmano ed hanno offerto ed offrono sostegno mediatico, politico e finanziario ai gruppi ad essa vicini operanti nei Balcani e in Europa. Eloquente al riguardo è la carta geografica a suo tempo diffusa dal califfato di Abu Bakr al Baghdadi.
Ma la faglia di contrapposizione politica interna al sunnismo e quella internazionale fra sciiti e sunniti divennero ancor più evidenti nel 2011, con la comparsa delle “Primavere arabe”. La Fratellanza, con in testa Turchia e Qatar diventarono sponsor delle emergenti forze islamiste operanti nei paesi sconvolti dalle ondate di protesta. L’evidenza di tale contrapposizione si percepì immediatamente con l’appoggio ad Al-Sisi da parte di Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti per destituire il governo di Morsi instaurato dalla Fratellanza e contrastarne l’ascesa nella regione sotto l’influenza di Turchia e Qatar. Infatti, le rivolte arabe avevano reso evidente che i beneficiari dei movimenti di protesta sarebbero stati, almeno nel breve termine, le forze dell’islamismo politico ispirate e/o legate alla Fratellanza Musulmana Internazionale, il cui “zampino” è ravvisabile anche nei Paesi arabi alle prese con gravi instabilità interne e con guerre civili.
Durante e dopo le “Primavere arabe” il Qatar è diventato uno dei maggiori sponsor della Fratellanza Musulmana Internazionale, appoggiandone le varie ramificazioni locali dall’Egitto alla Siria. Sicché nel 2014, ad un anno dalla deposizione del presidente egiziano Mohammed Morsi per mano del Generale Abdel Fettah al-Sisi, gli Emirati e l’Arabia Saudita hanno entrambi avviato una intensa campagna politico-diplomatica contro il Qatar, accusato di sostenere gruppi islamisti e di mirare all’egemonia regionale e annunciato l’inserimento del gruppo internazionale dei Fratelli Musulmani nella lista delle organizzazioni terroristiche.
Nel 2017 Arabia Saudita, Egitto, Emirati Arabi Uniti (UAE), Bahrein e Yemen ruppero le relazioni diplomatiche con il Qatar, accusandolo di sostenere il terrorismo, attuarono nei suoi confronti un blocco commerciale e confermarono l’inserimento dei Fratelli Mussulmani nella lista delle organizzazioni terroristiche. A Doha venne inoltre imposto di chiudere di Al- Jazeera, di rompere ogni rapporto politico ed economico con Hamas e con l’Iran e di chiudere la base militare turca poco distante dalla capitale.
Da allora il piccolo emirato ha ridotto il proprio coinvolgimento con i principali gruppi islamisti attivi nella regione, ma ha rifiutato la chiusura di Al-Jazeera e l’interruzione di ogni rapporto con l’Iran, con cui condivide il South Pars, il più grande giacimento di gas del mondo. Doha, inoltre, ha superato le difficoltà del blocco commerciale tramite il sostegno di Turchia e Iran, che ha determinato un ulteriore avvicinamento di Doha a Teheran. I Qatarioti dichiarando la loro pensione a collaborare con l’Iran – mortale nemico di Riyad – stanno coniugando un inedito triangolo turco-iranico-qatariota in opposizione al conservatorismo di Arabia Saudita, UAE ed Egitto. Di conseguenza non sono mancati attacchi alla Fratellanza Musulmana Internazionale, che avrebbe sedi proprio in Turchia e Qatar, additati come i principali sponsor del terrorismo a livello globale.
Guerra Fredda tra Arabia Saudita e Iran
La guerra fredda tra Arabia Saudita e Iran non si combatte soltanto attraverso guerre per procura, sostegno a gruppi terroristici, attentati e indottrinamento al credo khomeinista o wahhabita di credenti musulmani, ma anche con giochi diplomatici. Nel merito corrono voci di un presunto riavvicinamento tra regime siriano e monarchie del Golfo, in particolare EAU e Arabia Saudita in funzione di una nuova alleanza contro la Fratellanza Musulmana Internazionale, geopoliticamente incarnata da Qatar e Turchia.
In particolare contro la Turchia che è diventata da circa un anno e mezzo il principale sponsor dell’opposizione siriana, occupando anche territori nel nord del Paese. Damasco andrebbe così a inserirsi in una nuova divisione intra-sunnita, schierandosi con Riyadh e EAU contro Turchia, Qatar e Fratellanza Mussulmana Internazionale che sono i principali sostenitori dell’opposizione interna siriana. Tale mossa sembra tendere anche ad un isolamento di Teheran, che persegue ancora pervicacemente il suo obiettivo atomico.
Tuttavia, mentre l’Arabia Saudita continua a diffondere il suo Wahhabismo nella galassia islamista con i petrodollari, le società governative e non governative e ad osteggiare e/o abbattere governi retti dai Fratelli Musulmani (Morsi in Egitto, Ennahda in Tunisia), questi ultimi per contrastarne l’azione ricercano una base popolare islamista. Ciò attraverso l’educazione, la propaganda, l’assistenza agli strati sociali più bisognosi, operando tramite la “Organizzazione Internazionale della Fratellanza Mussulmana”.
La Guida suprema nega che ci sia una “Fratellanza Musulmana Internazionale” o un Progetto che la ispiri, ma afferma che esiste una “serie di regolamenti che disciplinano i rapporti delle organizzazioni e delle istituzioni dei Fratelli Mussulmani a livello internazionale”.
Tuttavia occorre ricordare che:
- già dai primi anni di vita il successo della Fratellanza ha oltrepassato i confini egiziani penetrando quasi tutti i paesi arabi: Siria, Palestina, Giordania, Libia, Tunisia, Marocco, Sudan, monarchie del Golfo, e Turchia. I varigruppi e movimenti ai quali hanno dato vita in questi paesi condividono l’organizzazione e l’impianto ideologico della matrice egiziana, mentre sul piano politico e sociale si sviluppano a seconda delle situazioni contingenti, seguendo le linee di una appropriata “adaptation” alle condizioni sociali del Paese ospitante;
- alcune fonti parlano dell’”Organizzazione Internazionale dei Fratelli Musulmani” (OIFM) nata nei primi anni Ottanta per volontà di militanti del movimento islamista e di una “Carta dell’Organizzazione Internazionale dei Fratelli Musulmani”, istituita ufficialmente il 29 luglio 1982. Attraverso la Carta è stata costituita una rete di “centri culturali” a Ginevra, Monaco, Londra, Vienna ed altre sedi in Europa e in USA. L’idea dell’organizzazione internazionale sarebbe stata voluta in particolare da Said Ramadan – genero di Hassan al-Banna – che avrebbe preferito spostare il centro di gravità dei Fratelli Musulmani dall’Egitto verso l’Europa e il Nord America;
- altre fonti affermano anche che lo sceicco Yussef al- Qaradawi, residente in Qatar, è considerato il principale esponente della Fratellanza Musulmana Internazionale che annovera fra i suoi organismi anche le “Sorelle Musulmane”, branca femminile dell’organizzazione di cui l’esponente più nota e popolare fu Zaynab al-Ghazali.
Va infine rimarcato che nel 2003, Yussef al-Qaradawi ha creato una nuova istituzione, il Consiglio Mondiale degli Ulema (aut Unione Mondiale degli Ulema), che sembra destinato a rimpiazzare le strutture internazionali della Fratellanza e che ha sede a Doha. Uno dei suoi membri ha scritto che «in quanto movimento islamico, il movimento talebano rappresenta l’Islam e lavora per incarnarlo nella vita quotidiana»;
- non va infine sottaciuto il ruolo rivestito da Hizb ut-Tahrir (Partito della Liberazione – HUT), partito islamista e fondamentalista transnazionale nato nel 1953 da una costola della Fratellanza e tuttora attivo con sede centrale a Beirut (Libano) e filiali in circa trenta Paesi asiatici ed europei ivi compresi gli Stati Uniti.
Hizb ut-Tahrir ha come scopo dichiarato quello di unificare, nel tempo, dapprima tutti i paesi musulmani – che chiama “terre islamiche” – in un califfato unitario, additandolo come un obbligo decretato da Allah che punirà quei musulmani “che trascurano questo dovere”. Una volta stabilito, il califfato si espanderà in aree non musulmane, attraverso “l’invito” e/o attraverso la jihad militare, in modo da diffondere l’Islam in tutto il mondo e raggiungere così il suo obiettivo. Il Partito è stato dichiarato illegale in quasi tutti i paesi musulmani, con eccezione di Malesia, Libano, Bangladesh, Pakistan e Yemen.
In conclusione lo scontro geopolitico fra Iran ed Arabia Saudita – per esportare/contenere la diffusione nel mondo islamico della Rivoluzione komeinista, sotto il profilo politico-ideologico – esprime due inconciliabili tendenze: rivoluzione o conservazione. La contesa – anche se affetta da mille sfumature e diverse declinazioni – in sostanza si svolge fra chi intende cambiare – anche con la violenza – gli assetti sociopolitici nati da un passato che si ritiene non abbia più futuro e chi si arrocca nella tradizione per conservare il precario equilibrio di un “capitalismo islamizzato”. In questa contesa si sono abilmente inseriti i Fratelli Mussulmani, imponendo il campo religioso come una competizione politica legittima per la conquista della leadership islamica finalizzata alla ricostituzione del califfato.
Il doppio binario dato dalla nuova conflittualità
Questa nuova conflittualità si sta sviluppando su un doppio binario, costituito da un lato da elargizione di petrodollari attraverso madrasse e centri di predicazione islamica per impedire la realizzazione del califfato; dall’altro mediante il sostegno sociale – anch’esso copiosamente finanziato – per beneficiare di un vasto consenso che legalizzi la costituzione del califfato. Binario su cui corre un’intensa propaganda (dawa) per l’autonoma istruzione o l’autoapprendimento della religione islamica politicizzata (islamismo) da parte di adepti che si avvalgono della predicazione di Ulema non sempre esperti religiosi operanti su Internet e sui social networks.
Tali nuovi “esperti” – però – non sono intellettuali, il loro sapere non è critico, ma dogmatico ed il rapporto docente-discente risulta confuso, generico e indiscutibile. Tutti producono e tutti ricevono e non sussistono gerarchie ove il sapere sia peculiarità di professionisti e l’apprendimento praticato da parte di autentici studenti ma quasi sempre esercitato o accettato soprattutto da emarginati, ghettizzati e malviventi.
Gilles Kepel – orientalista e direttore dell’istituto per gli Studi Politici di Parigi – afferma che l’attuale ideale della “guerra santa” avrebbe perso parecchio della propria forza dirompente portando alla frammentazione e alla rovina della comunità islamica con una guerra civile nel cuore dell’Islam. Di contro le società musulmane si starebbero trasformando per l’ingresso a pieno titolo nella modernità e nella democrazia. Pertanto l’obiettivo di una “rivoluzione islamica globale” con l’affermazione del califfato – secondo gli studiosi – è in realtà di difficile attuazione. Idea che non avrebbe finora fatto presa sulla maggioranza dei musulmani moderati, perché gli islamisti militanti – a causa della loro connotazione ideologica (fondamentalista) – incontrano difficoltà a rinvenire nell’Islam una fonte di legittimità al loro comportamento sanguinario.
Secondo alcuni l’Islam si avvia verso la secolarizzazione (separazione fra potere spirituale e potere materiale), ma noi vediamo ancora in atto uno scontro per la supremazia dell’Islam dei “pii antenati” che si sviluppa attraverso soggetti “interposti e manipolati” dai rispettivi mandanti, che operano soprattutto nell’arena centro-asiatica ed orientale nonché in quella cento-africana. Pur se l’ultimo leader dell’ISIS Abu Ibrahim al-Hashimi al-Qurayshi il 3 febbraio 2022 è stato ucciso dagli Americani, noi riteniamo che l’ideologia non muoia con la morte di un uomo perché i suoi seguaci sono stati addestrati a procedere avanti ugualmente. In ogni caso nell’area centro-africana ISIS ed al Qaeda stanno estendendo la loro influenza sulle popolazioni autoctone locali, puntando sulla soluzione dei loro problemi economici e sociali. Nell’Asia centrale, ISIS-Khorasan continua ad espandersi e fare proseliti oltre che attentati. L’Arabia Saudita, inoltre, difficilmente abdicherà dal suo progetto di leader dell’intero mondo sunnita; motivo per cui non mancheranno futuri scontri sia in direzione iraniana sia in opposizione alla Fratellanza Mussulmana per la supremazia dell’Islam wahhabita in tutto il mondo islamico. L’esito di questo scontro non è ancora definito e non è nemmeno sicuro che dalle collisioni in corso possa emergere un nuovo equilibrio fra Stati e non invece un ulteriore caos: un caos armato.
Gli Indomabili
Note
Nota 1: i componenti di Peshawar 7 erano:
- Hezb-i Islami Gulbuddin (“Partito islamico di Gulbuddin” o HIG o HIH): guidato da Gulbuddin Hekmatyar – che godeva di numerosi sostenitori, in maggioranza provenienti dalle aree pashtun e tagike – di idee decisamente fondamentaliste che aveva come scopo finale l’instaurazione di uno Stato islamico in Afghanistan e godeva di un solido appoggio da parte del Pakistan e del mondo arabo.
- Jamiat-i Islami (“Società islamica” o JIA): guidato da Burhanuddin Rabbani, era stato uno dei primi partiti islamici ad opporsi al governo comunista che, pur se minoritario tra l’etnia pashtun, raccoglieva però moltissimi seguaci tra tagiki, uzbeki e turkmeni, che annoverava tra le sue file il famoso comandante Aḥmad Shah Massud. Ideologicamente, il partito era orientato su posizioni fondamentaliste moderate.
- Hezb-i Islami Khalis (“Partito islamico di Khalis” o HIK): ala scissionista del HIH di Hekmatyar, guidato da un gruppo di mullah e “ulama” proiettato ad instaurare un regime teocratico nel paese.
- Ettehad-i Islami (“Unione islamica” o IUA): guidato da Abd al-Rasul Sayyaf, fondamentalista, che aveva rapporti con i gruppi wahhabiti.
- Jehb-i Nejad-i Melli Afghanistan (“Fronte di Liberazione Nazionale dell’Afghanistan” o ANLF): guidato da Sibghatullah Mojaddedi, un movimento di piccole dimensioni composto da intellettuali, uomini di Stato e Ufficiali del precedente regime, orientato su posizioni tradizionaliste, attivo soprattutto nelle zone di confine orientali a prevalenza pashtun.
- Mahaz-i Melli Islami (“Fronte Islamico Nazionale per l’Afghanistan” o NIFA): guidato dal leader religioso Ahmed Gailani, una specie di setta che annoverava molti sostenitori tra i pashtun della zona di Kandahar e delle aree di confine orientali. Contrario sia al comunismo che all’islamismo, era monarchico, nazionalista e filo-occidentale.
- Harakat-i Inqilab-i Islami (“Movimento Islamico Rivoluzionario” o IRMA): fondato da Mohammed Nabi Mohammedi, che contava tra le sue file molti mullah locali che garantivano così un largo seguito popolare, soprattutto nelle zone pashtun del sud, dell’est e tra gli uzbeki del nord.
Nota 2 Il Salafismo
La Salafiyya o salafismo è una corrente fondamentalista, sunnita – hanbalita, che intende “rifondare” l’islam opponendosi all’influsso di altre dottrine e a qualsiasi forma di occidentalizzazione. È così denominata dal termine arabo salaf al-ṣaliḥin (“i pii antenati”) che si identificano nelle prime tre generazioni di musulmani: i “Compagni” di Maometto, i “Seguaci” della generazione successiva e “Coloro che vengono dopo i seguaci”, cioè la terza generazione. Generazioni apprezzate – dai salafiti – quali modelli esemplari di virtù religiosa. Figure di riferimento della Salafia – tre studiosi del Corano e della Sunna – sono indicati col titolo onorifico di “Shaykh al-Islam”: Aḥmad ibn Ḥanbal (780-855), Ibn Taymiyya (1263–1328) e Muḥammad ibn Abdal-Wahhab (1703-1792) i quali predicavano l’applicazione della Sharia (Legge islamica).
A tali figure si ispirò l’”Iṣlaḥ” – ovvero il cosiddetto “Riformismo o modernismo islamico” – un movimento intellettuale e politico attivo tra l‘800 e il’900 nel mondo islamico con particolare riferimento all’area arabo-indiana. Islah, termine arabo che significa “riparazione”, è solitamente interpretato in ambito politico e religioso come “riforma”, da cui riformismo o modernismo islamico.
I primi dibattiti sul tema sono concordemente attribuiti alla spedizione napoleonica in Egitto nel 1798. All’epoca, la presenza militare europea che disponeva di avanzate tecnologie nonché la contestuale diffusione nell’area delle idee illuministe, unitamente a quelle della Rivoluzione Francese, suscitarono un tormentato confronto con l’immobilismo politico e culturale nel mondo arabo-islamico dall’Africa all’India. Al riguardo, la vasta area aveva già vissuto l’avvio dell’espansionismo coloniale europeo incentrato sia su lucrose rotte mercantili – che avevano sostituito quelle arabe – sia sullo sviluppo industriale. Se da un lato la nuova cultura suscitava ammirazione ed emulazione, dall’altra l’occupazione napoleonica fu interpretata come un’irresistibile ascesa del colonialismo e dell’imperialismo europeo che metteva in profonda crisi l’identità del mondo islamico. Dall’inevitabile confronto con la modernità europea nacque un movimento di “reviviscenza” eterogeneo, principalmente nell’area arabica ma con importanti ramificazioni anche in India.
Inizialmente il mondo islamico vagheggiò che il divario con l’Occidente dipendesse da una semplice inferiorità militare, peraltro senza mettere a fuoco che dietro quest’ultima si celava una cultura tecnologica ed un pensiero sempre più laicizzante, che auspicava una “libera Chiesa in un libero Stato”. Sentieri non facilmente imitabili, il cui percorso si prospettava di estrema difficoltà per il mondo islamico.
Tuttavia l’approccio all’Europa ebbe il merito di far conoscere alla “controparte” islamica le nuove realtà in fieri nel vecchio continente. Novità che esercitarono un certo “fascino” su un’esigua classe intellettuale non strettamente legata ai modelli esclusivamente religiosi dell’Islam. In questo contesto alcuni pensatori islamici si avvicinarono alla nuova cultura in espansione pensando di poter tradurre in realtà qualcuna delle tante promesse di libertà, uguaglianza e giustizia sociale, sbandierate dagli Europei. In particolare, i pensatori che si cimentarono in questa impresa furono: Jamal al-Din al-Afghani (1839-1897) iscritto alla massoneria, Muḥammad Abduh (1849-1905) anch’egli iscritto alla massoneria e Muḥammad Rashid Riḍa (1865-1935), tutti e tre operanti in Egitto.
Muhammad Abduh si convertì alla causa del rinnovamento dopo l’incontro con al-Afghani, indicato come padre del riformismo islamico, ed entrambi percepirono chiaramente l’incapacità degli Stati musulmani di difendere le rispettive popolazioni, le loro istituzioni politiche, il loro potere finanziario ed economico, a fronte dell’avanzante colonialismo europeo. I suddetti intellettuali invocarono una riforma ed una modernizzazione delle società islamiche in grado di liberarle dal dominio coloniale e ripristinare il proprio legittimo potere e prestigio.
Per il raggiungimento dello scopo era necessaria la creazione di uno “stato islamico” basato su una reinterpretazione dell’Islam – che ne eliminasse i retaggi «medievali» e le deviazioni avvenute nel tempo – con un ritorno ai principî del Corano dei “pii antenati” (salaf, da cui il nome di salafiyya). Al-Afghani e gli altri intellettuali affermavano che nel Corano si trovava la razionalità che era stata posta alla base sia della scienza sia della tecnologia moderna europea. C’erano anche i principî di lealtà, di patriottismo e di costituzionalismo, nonché orientamenti politici ed etici per la responsabilità morale e l’attivismo sociale, tutti fattori posti a fondamento del potere degli Stati moderni.
Ma il Corano, secondo i «riformisti», doveva essere interpretato nei suoi princìpi e orientamenti basilari e non pedissequamente applicato alla lettera nei suoi dettami specifici. Il fondamento della modernità musulmana risiedeva dunque nella chiave interpretativa del Corano e della Sunna trasferendone i concetti nella riforma degli Stati esistenti – frutto di un’imposizione coloniale, rafforzata dal potere dei “custodi militari” – in “stati islamici”. La riforma avrebbe risvegliato la popolazione islamica dal suo torpore e l’avrebbe affrancata dalla subordinazione al colonialismo europeo, restaurando il potere politico islamico e la vitalità culturale che aveva reso grande l’Islam nel passato.
Nei loro scritti difendevano la rinascita della cultura arabo-islamica, la lotta contro la dominazione straniera e i governi islamici secolarizzati, nonché attaccavano la corruzione e la divisione in seno alla comunità islamica. Affermavano, altresì, che le leggi dovevano essere adattate alla realtà moderna e che il regime parlamentare non era affatto incompatibile con l’Islam, come invece sostenevano i “dotti” musulmani conservatori.
La teorizzazione di questo stato, peraltro inesistente nel Corano e nella Sunna, venne fatta da Rashid Rida nel 1922, ispirandosi alle teorie di Abu Al-Hasan Al-Mawardi (972-1058). Mawardi, teorico del califfato, affermava che il califfo doveva:
- essere maschio, libero e sano di corpo e di mente;
- essere qurayshita, cioè appartenere alla tribù del Profeta Muhammad;
- essere dotto in scienze religiose, cioè essere un ulema, in grado di emettere pareri giuridici e religiosi;
- saper guidare gli eserciti in battaglia;
- essere eletto per libera scelta della comunità islamica (Ummah) tramite i suoi rappresentanti che erano gli stessi ulema.
Secondo Rida il mondo mussulmano non poteva fare a meno del califfato per assicurare l’unicità e la continuità della comunità dei credenti, ma tale Stato era postulato in assonanza ai criteri della modernità. In definitiva Rida auspicava che la Ummah, tramite un “congresso” avrebbe eletto i suoi rappresentanti i quali in una successiva “riunione” avrebbero a loro volta eletto il califfo fra i discendenti del profeta.
L’abolizione del califfato (3 marzo 1924 ad opera di Ataturk) e le ostilità degli ulema ortodossi e conservatori sancirono l’abbandono del disegno riformatore/modernista a favore di un panislamismo mirante a sviluppare reti di solidarietà fra mussulmani per una politica comune a sostegno dell’Islam, in funzione anti-occidentale e anti-socialista. In questo contesto, nel 1928 sorse l’Associazione dei Fratelli Mussulmani ad opera di Hassan al Banna, che si ispirò alle idee dei riformisti. Successivamente Said Qutb, appartenente anch’egli alla Fratellanza, riprese le idee di Rida propugnando di rifondare un califfato legittimo e forte come sede dell’unità islamica e della sua “legge”, garante della giustizia, dell’uguaglianza e basato sull’assistenza sociale ai più deboli, quale unica soluzione ai flagelli sociali che erano propri dei governi atei e materialisti.
Nota 3 Patto di Quincy
Il 15 febbraio 1945 – al rientro dalla Conferenza di Yalta – a bordo dell’incrociatore statunitense “USS Quincy (CA-71)” nei pressi del Canale di Suez, avvenne un incontro fra il Presidente statunitense Franklin Delano Roosevelt e il Re dell’Arabia Saudita Abd al-Aziz ibn Saud, (o semplicemente Ibn Saud).
Dopo una lunga discussione nel corso della quale il Presidente Roosevelt cercò di convincere Saud a sostenere l’immigrazione ebraica in Palestina, i due leader raggiunsero un accordo segreto – frutto di compromessi fra posizioni originariamente distanti – riguardante cinque temi:
stabilità del Regno saudita – fornitore di petrolio per l’Occidente in guerra – al quale gli USA avrebbero prestato assistenza militare e formazione, costituendo una base militare a Dhahran. In cambio l’Arabia Saudita avrebbe garantito l’accesso sicuro alle forniture di petrolio;
riconoscimento della stabilità dell’intera penisola arabica, rientrante come parte integrante nell’ambito degli “interessi vitali” degli Stati Uniti;
introduzione fra i due Paesi di un partenariato economico, commerciale e finanziario quasi esclusivo (i proventi del petrolio saudita avrebbero finanziato le produzioni statunitensi, spesso a scapito delle concorrenti industrie europee e/o asiatiche);
esclusione dell’ingerenza statunitense negli affari interni del Regno saudita: in particolare nessun codice di condotta o altra esigenza veniva espressa in materia di convergenze per la ricerca di una posizione comune;
nessun accordo venne raggiunto in tema di diritti umani e sull’appoggio incondizionato, da parte statunitense, alla costituzione dello Stato di Israele.
La durata di questo accordo fu di 60 anni ed è stato rinnovato per un analogo periodo di tempo nel 2005 dal presidente George W. Bush, senza suscitare grande interesse mediatico.
L’intesa – approntata nella logica della Guerra Fredda – derivava dalle concezioni strategiche e geoeconomiche di alti funzionari statunitensi. Secondo questi ultimi, la strategia da adottare da parte degli USA – sul fronte meridionale dell’URSS – era incentrata su Turchia, Iran e Arabia Saudita, per sorvegliare gli stretti sul Mar Nero e le frontiere a Sud dell’Unione Sovietica, nonché garantire i rifornimenti petroliferi. L’accordo di Quincy, in sintesi, assicurava a Riad la protezione militare statunitense in cambio di costanti approvvigionamenti energetici sauditi.
SINTESI
Terrorismo, gli sviluppi di Isis e Al Qaeda: lo scontro tra Wahhabismo e Fratelli Musulmani.
Isis e Al Qaeda sono due facce della stessa medaglia, coniata in tempi diversi ma con un obiettivo comune: ricreare il Califfato abolito da Ataturk. Ciò rappresenta non solo un pericolo concreto per la sicurezza globale, ma rischia anche di scatenare una guerra di religione dagli esiti incerti
Il terrorismo di Isis e Al Qaeda e i suoi possibili sviluppi. È questo il titolo di uno studio effettuato dagli Indomabili, giunto alla sua sesta parte, che traccia la storia delle due formazioni e dei fenomeni che hanno portato alla loro ascesa e caduta, nonché alla rinascita dell’“araba fenice”. Una nuova formazione, che mette a frutto le peculiarità di ognuna delle due facce della stessa medaglia: leadership, capacità operative e logistiche, nonché tecnologia. Ciò allo scopo di ricreare con ogni mezzo, violento in primis, il Califfato abolito da Ataturk. L’analisi, divisa in capitoli, vuol essere uno strumento utile per capire la nuova forma terroristica e ricercare strumenti idonei per contenere e/o mediare le dirompenti dinamiche del jihadismo, le quali abbracciano varie aree geopolitiche e periodi storici. Sviluppi che rappresentano un pericolo concreto per la sicurezza globale, non solo in Occidente, e che rischiano – come accaduto recentemente in Nuova Zelanda e nelle Filippine e recentemente nello Sri Lanka – di scatenare una vera e propria guerra di religione dagli esiti incerti; reazioni a catena con il conseguente sviluppo di una spiralizzazione della violenza di incontrollabile portata e di difficile contenimento.
La morte di bin Laden rompe l’equilibrio tra le due anime del Califfato: Wahhabismo e i Fratelli Musulmani
La morte di Osama bin Laden ha spento l’artefice della jihad globale che teneva insieme le due anime del Califfato, il Wahhabismo e i Fratelli Musulmani, i quali se ne contendono la paternità. Da qui, le due facce di una stessa medaglia – Al Qaeda e ISIS – sponsorizzati inizialmente da entrambi i movimenti islamisti, successivamente diventati “competitor”. La convivenza ideologico-strategica fra Wahhabismo e Fratellanza resiste fino al 2006, quando muore al-Zarqawi, padre naturale dello Stato Islamico e si frammenta definitivamente nel 2011 con la morte di bin Laden. Ayman Al Zawahiri, nuovo leader di Al Qaeda, cerca di imporre ad al Baghdadi di operare con la sua organizzazione solo in Iraq e di lasciar sviluppare al Fronte al-Nusra (filiazione di Al Qaeda nella Siria rivoltosa costituita nel gennaio 2012) l’attività jihadista in Siria. Al Baghdadi tentò di inglobare il Fronte nella sua organizzazione, ma questo resistette e continuò a battersi contro le truppe siriane sostenuto dal Qatar.
Come si è arrivati allo scontro tra Wahhabismo e Fratellanza Musulmana
La sincronizzazione degli eventi pone in evidenza le varie fasi attraverso le quali si è giunti allo scontro fra Fratellanza Musulmana e Wahhabismo: il 23 settembre 2014 gli USA formarono una coalizione di 11 Paesi occidentali e arabi per combattere l’ISIS nei quali figurava – pro forma l’Arabia Saudita ma non il Pakistan. Fu il primo campanello di allarme per le regie occulte dell’ISIS che nel gennaio 2015 – in previsione dell’abbandono dei suoi danarosi sponsor – annunciò la costituzione della wilayat KHORASAN. La nuova articolazione accolse nei propri ranghi ex membri e comandanti dei talebani pakistani e afghani – nessuno arabo – provenienti dai gruppi di: Teherik e taleban-e Pakistan (TTP), Islamic Movement of Uzbekistan (MIU) e Rete Haqqani, longa manus del Servizio Intelligence pakistano (ISI), impiegata laddove è necessario pescare nel torbido. La wilayat, paragonabile ad una provincia pakistana tant’è che è denominata “Khorasan Province”, venne costituita, ad arte, in un’area tri-confinaria fra Iran, Turkmenistan e Afghanistan, di specifico interesse strategico pakistano. Inoltre, all’interno di tale area si sviluppa il traffico dell’oppio, inclusa la produzione ed il commercio dell’eroina (circa 1 miliardo di dollari/anno), in particolare verso Russia, Tagikistan e Uzbekistan, utile per rimpinguare i finanziamenti provenienti dall’area del Golfo Persico in via di esaurimento.
La Khorasan Province
Il programma della “Khorasan Province” estendeva la sua influenza anche nell’area meridionale asiatica, cioè verso l’India ove alcuni gruppi jihadisti si sono ad essa affiliati. E proprio dall’India proveniva il carico di 24 milioni di compresse di tramadolo (sostanza oppiacea sintetica – insieme al captagon – di cui fanno uso soprattutto i jihadisti nei teatri di guerra) sequestrato venerdì 3 novembre 2017 nel porto di Gioia Tauro dalla Guardia di Finanza di Reggio Calabria e diretto a Misurata in Libia, ove operavano già dal 2015 miliziani dell’ISIS. La droga era imbarcata su una nave proveniente dall’India, che unitamente allo Sri Lanka sono indicate quali aree di provenienza di analoghi carichi di tali droghe sequestrate anche nel porto di Genova ed in Grecia. È, pertanto, di tutta evidenza che il gruppo islamista National Thowheeth Jama’ath, (Organizzazione Monoteista Nazionale) indicato quale responsabile degli attentati del 21 aprile 2019 (Pasqua) contro chiese cristiane e alberghi di Colombo (Sri Lanka) è quasi sicuramente uno dei gruppi jihadisti affiliati alla “Khorasan Province”, anche in ragione della rivendicazione degli attentati fatta dall’ISIS; Il 14 luglio del 2015 fu firmato il trattato per la limitazione del programma nucleare iraniano e ISIS attuò molteplici attentati in Europa, prevalentemente di direzione di Gran Bretagna, Francia e Germania, garanti del trattato per lo sviluppo del nucleare iraniano; il 5 giugno 2017 Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e altri Paesi musulmani decisero di interrompere le relazioni diplomatiche con il Qatar accusato di sostenere il terrorismo.
L’ultimatum dei paesi musulmani al Qatar
L’ultimatum a Doha fu tracciato in 13 punti, fra i quali di rilievo: rompere ogni rapporto diplomatico e economico con l’Iran; chiudere immediatamente la base militare turca nei pressi di Doha e, comunque, porre fine alla collaborazione militare tra l’Emirato e Ankara; chiudere immediatamente Al Jazeera; bloccare i finanziamenti ai gruppi o individui segnalati come terroristi dall’Arabia Saudita che, nel 2014, aveva inserito fra i gruppi terroristici la Fratellanza Musulmana; il 7 giugno 2017 due attentati, rivendicati da ISIS, colpirono a Teheran il Parlamento e il mausoleo di Khomeini – chiaro avvertimento all’Iran – causando 12 morti e vari feriti. Dura la reazione iraniana contro l’Arabia Saudita e gli USA, indicati come ispiratori degli attentati; Nel mese di dicembre venne dichiarata la “fine della guerra contro Daesh”.
L’arrivo dei Fratelli Musulmani alla dirigenza di Al Qaeda ha creato la rottura tra Fronte al-Nusra e Isis. Il primo gruppo fu supportato dal Qatar, il secondo dagli altri paesi del Golfo Persico. Zawahiri arrivò a disconoscere il Califfato
Alla morte di bin Laden la Fratellanza Musulmana (Zawahiri) subentrò nella dirigenza di Al Qaeda e si sviluppò la divergenza fra Fronte al-Nusra e ISIS. Il primo fu finanziato e supportato dal Qatar – anche per il tramite di Yasir Abu Hilala, jihadista salafita – strettamente collegato ai Fratelli Musulmani, mentre Daesh dagli altri Paesi dell’area del Golfo Persico. Alla frattura insanabile tra sunniti e sciiti, si aggiunse un ulteriore fattore di divisione rappresentato dalla competizione tra Wahhabismo e Fratellanza Musulmana. Evidente dimostrazione ne fu il disconoscimento del Califfato da parte del fratello musulmano Al-Zawahiri (“Il Califfato non è un’evoluzione del nostro movimento e non ne riconosciamo la legittimità e gli obiettivi in Iraq”) contesto in cui emerse la “lunga ombra” delle rivalità tra Qatar e Arabia Saudita.
Le divergenze fra Arabia Saudita e Qatar risalgono agli anni Novanta
La “lunga ombra” delle divergenze fra Arabia Saudita e Qatar risale agli anni Novanta, quando lo sceicco Hamad bin Khalifa al-Thani, – nato a Doha nel 1952, emiro del Qatar dal 1995 al 2013 – irrigidì i suoi rapporti con i Sauditi per dissapori intervenuti nel corso della guerra del Golfo del 1991. Sia la famiglia al-Thani sia i Saud provengono dall’interno della penisola (Neged), da dove nasce l’austero Wahhabismo ed entrambi cercano di rivendicare la loro versione di tale dottrina come ortodossia. In sostanza, il Qatar rivendica un wahhabismo del mare, un modello più aperto e flessibile rispetto a quello del deserto, praticato dai Saud. Un altro fattore di conflittualità é rappresentato dal sostegno pubblico alla democrazia dichiarato nel 2003 da Hamad al-Thani: «Chiunque voglia sviluppare i propri paesi … deve praticare la democrazia. Questo è ciò che credo». Un pensiero non condivisibile dai Sauditi. (Cfr. R. Ramesh The long-running family rivalries behind the Qatar crisis, The Guardian, 21 luglio 2017).
L’Emirato ha alimentato le divergenze con il Regno
Da allora il Qatar ha perseverato nelle divergenze con la casa regnante dei Saud attraverso:
- la costituzione, nel 1996, di Al Jazeera che – insieme ad altri social media – ha influenzato l’opinione pubblica dell’area in modo non gradito ai governi arabi, in particolare ai Sauditi;
- il sostegno del Qatar sia ai ribelli libici – che hanno spodestato Muhammar Gheddafi nel 2011 – sia al Fronte al Nusra, nella cosiddetta “primavera siriana”;
- la professione di un Wahhabismo moderato in competizione con l’Arabia Saudita. Competizione che il nuovo re saudita, Mohamed bin Salman (MBS), ambisce a recuperare, modernizzando i costumi e le tradizioni dei propri sudditi;
- un dinamismo negli investimenti qatarioti, elargiti per finanziare organizzazioni islamiche e moschee in Francia, Regno Unito, Belgio, Spagna, Italia, Irlanda, Danimarca, nonché la moschea al-Salam di Nantes, la moschea di Mulhouse (Francia), la grande moschea di Marsiglia e 43 moschee in Italia.
A giugno del 2017 c’è stata la resa dei conti tra Riad e Doha con la scusa del sostegno al terrorismo, ma nessuno dei due paesi ne è immune
La resa dei conti tra Arabia Saudita e Qatar era inevitabile e si è manifestata nel giugno 2017 con l’accusa di sostegno al terrorismo rivolta all’Emirato in seno al Consiglio di Cooperazione del Golfo (GCC), in particolare da: Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti ed Egitto, oggi retto dalla dittatura del Generale Al Sisi. Ma ancora più eloquente è la chiusura dei “rubinetti” che facevano pervenire l’acqua ai pesci, con gli arresti domiciliari del novembre 2017 inflitti ad 11 principi della famiglia saudita e a 35 alti funzionari di quel regno, per corruzione e con il congelamento dei loro beni. Tuttavia, nemmeno Riad può dirsi immune da analoghe complicità col terrorismo e non solo con quello di matrice qaedista. Un’opacità nel rapporto tra il Regno e Isis si evidenzia ad esempio nella denuncia dell’Institute for Gulf Affairs (IGA), think tank di opposizione a Ryad con sede a Washington, che ha rilevato come, dal 2014, siano stati circa 400 i giovani sauditi e kuwaitiani partiti dagli Stati Uniti per unirsi a Daesh o Al Qaeda in Siria e Iraq.
La Fratellanza Musulmana sul piano religioso sostiene il ritorno al Corano, mentre su quello sociale richiama tutti i musulmani (sia sciiti sia sunniti) alla solidarietà e all’impegno attivo, teorizzando la costituzione dello Stato Islamico globale, cioè il Califfato
La Fratellanza Musulmana sul piano religioso sostiene il ritorno al Corano, mentre su quello sociale richiama tutti i musulmani (sia sciiti che sunniti) alla solidarietà e all’impegno attivo, teorizzando – sul piano politico – la costituzione dello Stato Islamico globale, cioè il Califfato. Per conseguire tale obiettivo si avvale di varie organizzazioni islamiste per diffondere il proprio credo politico, fra le quali primeggia l’organizzazione internazionale pan islamica denominata Hizb ut-Tahrir – HuT – (Partito di liberazione). L’organizzazione fu fondata nel 1953 a Gerusalemme – come costola dei Fratelli Musulmani – da Taqiuddin al-Nabhani, uno studioso islamico e giudice di corte d’appello (Qadi) della Palestina. La struttura non riuscì a radicarsi in Medio Oriente mentre ottenne consensi e mise radici nell’Asia centro-meridionale, dove divenne popolare soprattutto tra i giovani di origine pakistana e del Bangladesh. Il movimento consiste in una rete di cellule segrete con filiali in Europa, Asia centrale, meridionale e sud-orientale che si diramano fino all’Indonesia, nonché un punto d’appoggio in India. Le aree in cui opera sono denominate wilayat – che il nuovo Califfato unificherà in una sola nazione composta da Paesi a maggioranza musulmana: dal Marocco in Nord Africa, alle Filippine meridionali, nell’Asia sud orientale.
Hizb-ut-Tahrir (HuT) è l’organizzazione internazionale pan islamica più usata dai Fratelli Musulmani per diffondere il loro credo politico
Parallelamente, questa recluta alti ufficiali e giovani istruiti allo scopo di assumere le redini del futuro Califfato. Ha anche un’ala militare Hizb-ut-Tahrir (HuT) opera nel sociale in maniera lenta e costante, evitando abilmente qualsiasi contatto con gruppi jihadisti mentre diffonde la sua ideologia. Il suo pubblico di riferimento è costituito da alti ufficiali, burocrati e professionisti, inclusi medici, ingegneri, contabili, manager in multinazionali e altre categorie di giovani altamente istruiti. HuT, fin dall’inizio, ha posto la sua attenzione nel reclutare alti ufficiali e giovani molto istruiti allo scopo di assumere le redini del futuro Califfato ed avrebbe costituito, a tal fine, un’ala armata con cui addestrare i suoi quadri per operazioni belliche. Il suo credo ideologico è incentrato su:
- ricostituire l’Islam Khilafah, ovvero il Califfato come “Stato Islamico”;
- reclutare alti ufficiali e dirigenti civili; indottrinare e reclutare i giovani delle università;
- ricostituire il Califfato e diffonderlo mediante la jihad, offensiva e aggressiva, per recuperare le terre perdute – dalla Spagna, alla Russia, alla Cina – nonché invadere e conquistare le “terre degli infedeli”.
L’organizzazione dedica particolare attenzione al Pakistan, che considera un Paese adatto per la sede di un futuro Califfato (o Khilafat) sia per la posizione geo-strategica sia per le ricche risorse naturali ed umane. A tal fine prevede la costituzione di un forte “esercito islamico” in grado di estendere i confini del Califfato dal Pakistan all’India e all’Asia centrale. Il Pakistan avrebbe messo al bando HuT nel 2003, dopo aver scoperto suoi collegamenti con diversi complotti terroristici.
L’ideologia di HuT
L’ideologia di Hizb ut-Tahrir – strumento particolarmente ostico per Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, considerati da tale organizzazione “agenti” di un potere non musulmano – rifiuta l’assimilazione e predica l’associazione per la realizzazione del Califfato universale o globale. L’obiettivo dell’associazione stessa è così sintetizzato nell’espressione del suo fondatore, che affermava: “La feroce lotta tra il pensiero islamico e il pensiero degli infedeli continuerà con una sanguinosa lotta a fianco della lotta intellettuale fino all’ora in cui Allah erediterà la Terra e tutti coloro che sono su di essa”.
I Fratelli Musulmani sfruttano anche strumenti finanziari per estendere la loro influenza
Inoltre, Fratellanza Musulmana sfrutta strumenti finanziari simili alla Al Takwa Bank, “il timore di Dio” – definitivamente chiusa nel 2003 – che aveva uffici a Lugano ma attività bancarie condotte attraverso una struttura offshore situata nelle Bahamas. Sulla stessa, nel 2001, fu svolta un’inchiesta per finanziamenti al terrorismo, nel corso della quale fu rinvenuto un documento definito “Progetto” – datato dicembre 1982 e redatto da ignoti. Il direttore di tale banca, Youssef Nahda, non ha voluto rivelare i nomi, ma Il Progetto, redatto in lingua araba, era finalizzato a stabilire un “potere islamico su tutta la terra”, attraverso la propaganda, la predicazione e, se necessario, la guerra. Il documento inizia con queste parole: “Nel nome di Dio Rapporto / 5/100 […] Questo rapporto presenta una visione globale di una strategia internazionale per la politica islamica. Secondo le sue linee guida, e in accordo con esse, le politiche islamiche locali sono elaborate nelle diverse regioni” (Cfr. Sylvain Besson, “La conquete de l’occident” – Les projet secret des islamistes, Editions du Seuil, Paris, 2005).
Non mancano nemmeno i metodi clandestini, “presi in prestito dal consumismo internazionale” per infiltrarsi nelle società islamiche e non, allo scopo di alimentare la jihad globale
Infine, la formazione impiega metodi clandestini, simili a quelli usati dal comunismo internazionale, per infiltrarsi nelle società islamiche e non islamiche mediante la partecipazione alle istituzioni parlamentari, comunali e sindacali, costituzione di servizi sociali e formazione di istituzioni economiche, scientifiche e mediche per essere in contatto con le persone e influenzarle ideologicamente. Tale ideologia, altresì, tende ad affiancare e studiare i centri di potere locali e globali ricercando ogni opportunità per porli sotto la propria influenza. Ciò allo scopo di raccogliere fondi per perpetuare la jihad.
La Fratellanza Musulmana mira ad affermarsi ovunque come alternativa moderata del terrorismo jihadista
I Fratelli Musulmani e i loro seguaci, con questa metodologia – basata su una scuola di pensiero aperta e flessibile, in continua espansione – mirano ad affermarsi ovunque come alternativa “moderata” del terrorismo jihadista. Il loro carattere elitario – paragonabile ad una sorta di Massoneria islamica – favorisce la loro penetrazione negli alti livelli (sociali, politici ed economici) per propagandare una scuola di pensiero finalizzata a “restaurare e instaurare l’Islam come principio guida della società”. Strategia ben delineata nel seguente aforisma: “Conquisteremo l’Europa, conquisteremo l’America, non con la spada ma con il nostro messaggio” (Sheikh Yusuf al-Qaradawi, religioso musulmano sunnita qatariota, noto per il suo programma televisivo in Al Jazeera: al-Shariaa wal-ḥayat – “Sharia e vita”).
RINGRAZIAMENTI
Al termine di questa lunga esposizione ci sentiamo in dovere di esprimere un rispettoso “Grazie” ai pazienti lettori – che ci hanno fin qui seguito – i quali probabilmente si stanno domandando il perché di un simile lavoro. La nostra risposta è dettata dai nuovi orizzonti aperti dai dogmi di un mondo che si è ormai ristretto a “villaggio globale”. Villaggio ove nessuno può più pensare di proteggersi al chiuso nel proprio ambiente, al riparo da pericoli e minacce, ma ciascuno deve contribuire a contrastare e neutralizzare tali pericoli e minacce per la propria sopravvivenza. Abbiamo pertanto affrontato l’argomento in primo luogo per comprendere noi stessi le tante sfaccettature di un dominio culturale per molti versi disuguale dal nostro – e con il quale ci confrontiamo ogni giorno – al fine di individuarne origini, comportamenti e motivazioni. In secondo luogo per chiarire ai lettori le intricate convergenze e le dirompenti controversie del citato “villaggio globale” che spesso si tramutano in spregevoli e sanguinosi atti di violenza terroristica.
In terzo luogo per mantenere viva la consapevolezza dei lutti e delle sofferenze passate che troppo spesso “evaporano” non soltanto dai media ma anche dalle nostre coscienze e ci rendono spettatori inconsapevoli di quelli futuri. Il tutto al fine di solleticare le nostre menti alla ricerca di possibili soluzioni – imperniate sul soft power – per arginare i rischi conseguenti al terrorismo i quali affiorano molto frequentemente sull’orizzonte di tutti. Un aforisma attribuito ad Albert Einstein recita: “La mente è come un paracadute, funziona solo se si apre”.
Sui media – nella maggior parte dei casi – abbiamo trovato in merito all’argomento espressioni di idee semplicistiche e non distinte o interpretazioni dottrinali e metafisiche non sempre fruibili dal vasto pubblico. Semplificazioni e/o intellettualismi – che difficilmente conducono ad un dialogo con realtà diverse – talvolta destinati a divenire divergenze di vedute insanabili. Non intendiamo proporre la confessione islamica in termini di stereotipi manichei ma di comprendere quella sua particolare realtà che si ammanta di pratiche difficilmente conciliabili con l’idea di una pacifica convivenza.
La nostra chiave di lettura lineare vede nell’Islam la preminenza del carattere politico su quello religioso che ormai quasi all’unanimità gli studiosi definiscono “Islamismo”: cioè movimento ideologico di matrice religiosa – che si batte per affermare il primato del potere divino su quello umano – con l’obiettivo di costruire, di conseguenza, uno “Stato islamico”. Corrente ideologica che sta suscitando estremismi contrastanti e contrapposizioni violente, anche a spese della maggioranza dei mussulmani onesti e moderati.
In conclusione, riteniamo che le nostre conoscenze sia sull’Oriente in generale sia sul mondo islamico in particolare siano sufficientemente ampie e corrette rispetto a quelle disponibili ma non taumaturgiche. Siamo altresì consapevoli della relatività di ogni punto di vista e dei rischi che si corrono nell’accostare le nostre categorie a realtà distanti e differenti da quella a cui apparteniamo, ma il nostro operato cerca solo di favorire un confronto di idee per perfezionare cultura e conoscenze, ma non una contrapposizione delle stesse. Siamo altresì consapevoli che è scientificamente provato che non si può essere apprezzati da tutti, ma ci auguriamo di aver almeno interessato la platea dei lettori che ci hanno fin qui seguito.
Gli Autori
Luciano Piacentini – Brevettato incursore, è stato Comandante di Unità Incursori nel grado di Tenente e Capitano. Assegnato allo Stato Maggiore dell’Esercito, ha in seguito comandato il Nono Battaglione d’Assalto Paracadutisti “Col Moschin” e successivamente ricoperto l’incarico di Capo di Stato Maggiore della Brigata Paracadutisti “Folgore”. Ha prestato la sua opera negli Organismi di Informazione e Sicurezza con incarichi in diverse aree del continente asiatico. E’ laureato in Scienze Strategiche e Scienze Politiche.
Claudio Masci – Ufficiale dei Carabinieri proveniente dall’Accademia Militare di Modena, dopo aver assunto il comando di una compagnia territoriale impegnata prevalentemente nel contrasto al crimine organizzato, è transitato negli organismi di informazione e sicurezza nazionali. Laureato in scienze politiche. Tra i suoi contributi L’intelligence tra conflitti e mediazione, Caucci Editore, Bari 2010 e The future of intelligence, 15 aprile 20122, Longitude, rivista mensile del MAECI.
Pino Bianchi – Architetto, esperto in risk management, organizzazione, reingegnerizzazione dei processi e sistemi di gestione aziendali. Per oltre venti anni ha diretto attività di business, marketing, comunicazione e organizzazione in imprese multinazionali americane ed europee. Consulente di direzione in ICT, marketing, comunicazione, business planning e project financing.
ANTIOCO – Ha maturato varie esperienze lavorative in Italia e all’estero occupandosi di consulenza direzionale, sviluppo di mercati, cooperazione internazionale e gestione commerciale per rilevanti realtà industriali. Da sempre attento ai temi della security, ha ricoperto in realtà strategiche nazionali vari ruoli di responsabilità occupandosi di business continuity, security strategic planning, security communication, ricerca e analisi informativa e corporate intelligence.
Claudio Masci e Luciano Piacentini sono gli autori di: “The future of intelligence”, articolo del 15 aprile 2012, pubblicato su Longitude, rivista mensile del MAECI, nonché dei libri: “L’intelligence tra conflitti e mediazione”, Caucci Editore, Bari 2010 (esaurito) e di “Humint… questa sconosciuta (Funzione intelligence evergreen)”, acquistabile da Amazon.